Coca a fiumi e prezzi più bassi, così i narcos inondano l’Europa di droga: il ruolo della ‘ndrangheta “occulta”

Il mondo del narcotraffico è in continuo mutamento: rotte, produzione, prezzi, alleanze e porti. Negli ultimi cinque anni, Paesi che fino a qualche tempo fa erano rimasti ai margini dei traffici tra Sud America e Europa sono diventati piattaforme di partenza per i viaggi transoceanici. In questo nuovo scenario hanno acquistato un ruolo centrale i paesi del cosiddetto “Conosur”: Cile, Argentina, Uruguay, Brasile e Paraguay. Di questi temi si è discusso martedì 7 ottobre a Palazzo San Macuto, sede della Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno delle mafie, organismo presieduto da Chiara Colosimo. Davanti ai parlamentari italiani si è svolta l’audizione di Martín Verrier, Secretario nacional de lucha contra el narcotráfico y la criminalidad organizada; e Diego Iglesias, procuratore capo della procuraduria de narcocriminalidad argentina “Procunar”. Un’audizione nella quale il membro del governo argentino e l’alto magistrato hanno potuto relazionare sui nuovi sviluppi della guerra al narcotraffico e sulle nuove strategie dei gruppi criminali per opporsi al contrasto da parte delle forze di polizia.

Si produce troppa cocaina
Verrier è partito da un (nuovo) dato fondamentale: «Esiste una situazione inedita – ha spiegato – ovvero la sovrapproduzione di cocaina a livello globale. Oggi abbiamo una produzione 5 volte superiore a solo 10 anni fa, con una crescita significativa, soprattutto in Colombia, dove il processo di pacificazione nel Paese è stato usato da chi non ha aderito a quel processo, come le Farc, per aumentare le aree di produzione e potenziare così le rotte di traffico transatlantico».
Un impatto diretto di questa sovrapproduzione di cocaina in Colombia, per esempio, si riscontra secondo Verrier «nell’area del Conosur. Tutta la droga che viene prodotta si sta concentrando nei porti del sud del Brasile, Uruguay, Argentina e Cile, che solo qualche anno fa erano scali di seconda categoria per il narcotraffico». Davanti a uno scenario del genere, con l’aumento della produzione da una parte e la pressione delle forze di polizia e magistratura dall’altra le rotte del narcotraffico continuano a cambiare, cercando nuove vie o rispolverandone altre sfruttate in passato e poi abbandonate. Tra queste ultime avrebbe ripreso vigore quella verso i paesi del Nord Africa e del Sahel (Africa subsahariana).

La logistica del narcotraffico e la ‘ndrangheta
«Questo vuol dire – aggiunge Verrier – che la catena logistica del narcotraffico e la sua evoluzione si basi sui costi e sui rischi che devono affrontare i narcotrafficanti. Il tutto è fortemente collegato alla sovrapproduzione di cocaina che portato ad un “revival” di alcune rotte, soprattutto quelle africane». I dati, secondo il segretario Verrier sui sequestri di cocaina raccontano di «un valore che si è moltiplicato per 4 nel corso degli ultimi tempi. Quindi c’è un quadruplicarsi della quantità prodotta e giunta in Europa. L’indicatore più interessante di valutazione di questo mercato è quello che ci permette di capire quella che la purezza della droga è sempre più alta e il prezzo sempre più basso. Siamo di fronte, quindi, ad un eccesso di offerta».
E in questo mercato dinamico non poteva non svolgere un ruolo da protagonista la ‘ndrangheta. La criminalità organizzata calabrese è stata “scoperta” da poco tempo dagli inquirenti argentini che hanno preso coscienza della sua grande pericolosità e dell’enorme bacino a cui le cosche possono attingere nel grande Paese sudamericano. «Ci siamo resi conto – hanno ammesso – che la ‘ndrangheta opera in Argentina in modo molto occulto. Nel nostro paese abbiamo oltre 100.000 calabresi che vivono lì stabilmente, quindi già abbiamo la seconda e anche terza generazione. Sappiamo che è di fatto la comunità italiana più grande e questo ha permesso alla ‘ndrangheta di poter contare sull’appoggio di affiliati, di persone che si attivano immediatamente quando hanno bisogno. La ‘ndrangheta è molto chiusa, molto nascosta, di fatto opera al di sotto di ogni livello di attenzione e quindi la cooperazione con l’Italia diventa importantissima. Dobbiamo cooperare, condividere informazioni, dobbiamo farlo in modo dinamico, in modo molto rapido. Una settimana fa è venuto in Argentina un gruppo del Ros dei carabinieri per lavorare con le forze di polizia dell’Argentina. Le indagini sulla ‘ndrangheta richiedono conoscenze specifiche di cui non siamo dotati, che stiamo apprendendo piano piano sulla base di questo grande lavoro che stiamo portando avanti. Abbiamo il nostro ufficiale di collegamento all’interno dell’Ambasciata, abbiamo una serie di programmi di collaborazione che ci hanno fatti conoscere la ‘ndrangheta, che non conoscevamo, per indagare e intervenire. Era una questione anche culturale, di lingua e dobbiamo avere agenti, ad esempio appartenenti ai carabinieri e ad altre forze, capaci di collaborare con noi per creare dei gruppi interforze ed essere pronti e operativi».

Complicità istituzionali e politiche anche Italia?
I cartelli e le organizzazioni criminali, anche in Argentina possono contare spesso sull’appoggio a livello istituzionale. Iglesias, rispondendo a una domanda specifica dei parlamentari italiani, ha spiegato che in «Argentina abbiamo delle indagini in corso, ci sono state persone condannate in tutti e tre i poteri (dello Stato ndr). Siamo riusciti ad arrivare poi anche ad autorità di altri paesi. Nel quadro di queste attività condotte con i team d’indagine congiunti abbiamo sempre osservato, magari anche la complicità di alcune autorità italiane, di alcune figure italiane ma non posso dire altro, non so se posso considerare chiara la risposta».

Trasbordi in alto mare e cambio di imbarcazioni prima dello sbarco
Sofisticati scanner nei porti, segnalazione di container sospetti, inchieste per scovare portuali infedeli al soldo della criminalità organizzata. La lotta al narcotraffico ha segnato un notevole passo in avanti nell’intercettare e togliere dal mercato quantità sempre più ingenti di cocaina. Le operazioni della Guardia di finanza e dell’Agenzia delle dogane di Gioia Tauro, per esempio, hanno fatto scuola nel corso degli ultimi anni, tanto da spingere i narcos legati alla ‘ndrangheta a dirottare i carichi in arrivo dall’America Latina verso altri scali, soprattutto del Nord Europa. La scelta di nuovi porti dove fare arrivare la polvere bianca, però, non il solo metodo usato dai narcotrafficanti. «Oggi – ha affermato il segretario Verrier – osserviamo molti casi nei quali la cocaina viene caricata in alto mare, non dentro un porto, per poi arrivare in Europa. Abbiamo avuto il caso di una nave davanti al porto di Montevideo, il trasbordo non è arrivato dentro lo scalo, ma è stato effettuato a largo e una volta effettuato il trasbordo il carico è arrivato prima in Argentina e poi è partito per l’Europa. La posizione esatta di quel carico, quindi, potrà essere geolocalizzato proprio a bordo. Il narcotraffico, quindi, è molto dinamico soprattutto in questa ultima fase di arrivo ai porti europei». C’è stata quindi una grande trasformazione delle strategie adottate dai grandi cartelli della droga, non solo per quanto riguarda l’occultamento sulle navi, ma anche perseguendo rotte differenti rispetto al passato, o già battute e poi abbandonate. Verrier e Iglesias hanno spiegato che le indagini hanno portato gli inquirenti a seguire carichi approdati in Europa attraverso l’Africa.
«La cocaina arriva in Marocco, Algeria. E da lì si utilizzano navi o imbarcazioni più piccole, superveloci, addirittura dei sottomarini senza personale a bordo per cercare di sfruttare appunto le tecnologie». La magistratura argentina ha messo gli occhi su una famosa compagnia di navigazione. Una loro nave, «si è spostata di 700 chilometri verso il sud per collegarsi con un’altra nave che era presente in quella zona. C’è una grande “contaminazione” dei container, spesso questa attività, come detto, viene già effettuata a largo dell’oceano, quindi quando la nave non è ancora attraccata nel porto, questo rende tutte le nostre operazioni ancora più difficili».
‘Ndrine, Pcc e terrorismo islamico: convergenze criminali sul narcotraffico
Cosa hanno in comune la ‘ndrangheta, il terrorismo islamico e un gruppo paramilitare brasiliano? Facile, la cocaina. È la “polvere bianca”, infatti, il collante che tiene insieme interessi in apparenza inconciliabili, alimenta relazioni pericolose per governi e cittadini e produce enormi ricchezze illecite che verranno reimpiegate per scopi differenti. Nel caso dell’islamismo, per esempio, per finanziare la propria rete clandestina nel mondo, reclutare e organizzare attentati. I gruppi paramilitari, invece, grazie al narcotraffico acquistano armi e prestigio, controllano pezzi di territorio e aspirano, addirittura, a sostituirsi al potere politico. Tra questi mondi si muovono le cosche di ‘ndrangheta, sempre pronte a sfruttare alleanze variabili e muoversi in zone d’ombra dove c’è minore controllo da parte delle istituzioni.
La necessità di trovare nuovi porti per inviare la cocaina in Europa ha facilitato la nascita in Brasile del “Primero comando da capital”, il Pcc. Dalle inchieste effettuate in Argentina, sarebbe emerso il funzionamento di questa rete, «in che modo i vari acquirenti stabiliscono le varie relazioni. Tra questi è compresa la ‘ndrangheta, con la presenza di un broker, il cosiddetto venditore all’ingrosso di maggiori dimensioni di cocaina sui mercati». La cocaina, quindi, avrebbe creato una convergenza criminale tra il Pcc e la ndrangheta in America Latina.
«La ‘ndrangheta – afferma il segretario Verrier – è sicuramente molto forte, ha una presenza significativa in America Latina e continua a rafforzare la sua sussistenza in quel territorio ormai da tempo. Ha una presenza storica direi che anche oggi continuiamo a scoprire per certi versi». L’organizzazione gestita dal superbroker calabrese Rocco Morabito detto “tamunga”, per esempio, era sostenuta dall’Argentina, dove nel 2020 su impulso della Dda di Reggio Calabria sono state arrestate diverse persone di origine italiana in Argentina accusate di avere collaborato con la ‘ndrangheta. «Tutto questo ha dimostrato – aggiunge Verrier – che la ‘ndrangheta è sempre stata in Argentina, quello che accade oggi, quello che stiamo scoprendo, è che è sempre esistita questa grande convergenza tra gruppi criminali».
Convergenze, quindi, tra gruppi criminali simili, che si osserva in quelle aree dove i governi non sono presenti, dove non riescono a mantenere il proprio controllo su quei territori. «Soprattutto, però, inizia ad osservarsi una certa convergenza con il terrorismo e questo ci preoccupa ancora di più. Alcuni esempi sono molto chiari: uno dei partner di Rocco Morabito era Waleed Issa Kamais, conosciuto anche come “il palestinese” e questo soggetto faceva anche da nesso con il Pcc e ha collegamenti con Khalil, Najib, Karam che al contempo aveva contatti con il centro islamico sciita a Brasilia e molti degli affiliati di Karam provengono dal centro islamico sciita in Brasile e questo ha visto anche lo svilupparsi di un’operazione, l’operazione “Trapiche”, che ha portato alla scoperta di una cellula terrorista che stava organizzando un attentato.
Quindi questa relazione tra crimine organizzato e terrorismo, che spesso vengono considerati come mondi scissi, fanno parte di una stessa realtà che si sta vedendo fortemente in America Latina. I terroristi che hanno organizzazione con i criminali perché questo risulta loro molto utile e alla fine la stessa organizzazione criminale si vede così trasformata. Le organizzazioni criminali adottano alla fine delle tattiche di carattere terroristico, quindi, c’è una forte convergenza. Abbiamo l’abitudine di mantenere questi universi separati, ma non è così. L’impatto che si genera sulla stessa regione è significativo. Oggi ci troviamo dinanzi ad una situazione dove la democrazia e la stabilità repubblicana sono messe a rischio, così come il modo di vivere e la qualità della vita».
Un’ulteriore conferma del quadro tracciato dagli inquirenti argentini è arrivata nei giorni scorsi. La Polizia federale del Brasile, infatti, ha portato a termine una nuova fase dell’operazione “Mafiusi”, con l’obiettivo di smantellare un’organizzazione criminale nata dall’alleanza tra la ’ndrangheta calabrese e il Primeiro comando da capital. L’inchiesta, condotta in collaborazione tra la Procura federale brasiliana e le autorità italiane di Torino, ha rivelato un fiorente traffico internazionale di droga e portato alla scoperta di uno schema di riciclaggio del denaro proveniente dalle attività illecite, che avrebbe movimentato oltre 315 milioni di euro tra il 2018 e il 2022. Gli agenti hanno arrestato tre persone ed eseguito dodici mandati di perquisizione, congelando conti per oltre 2,1 milioni di euro e sequestrando immobili, auto di lusso – tra cui Ferrari, Bmw e Porsche – orologi di pregio e una moto Harley Davidson. Secondo la polizia, la rete criminale inviava cocaina dal porto di Paranaguá verso l’Europa, nascosta in container di ceramica o legname, con destinazione finale in Spagna e Belgio.

L’Argentina adotta il 41bis contro i boss del narcotraffico
L’Argentina negli ultimi anni ha dovuto prendere coscienza della carenza di strumenti per fronteggiare le organizzazioni criminali sul suo territorio. Il problema delle bande e della necessità di limitarne l’operatività si è andato allargando anche al sistema carcerario. «In Argentina da ormai 5 anni abbiamo iniziato a osservare fenomeni che nascono all’interno delle carceri federali. La maggior parte dei gruppi criminali si rafforzano all’interno delle carceri, o nascono addirittura all’interno. Non siamo stati molto originali –ha spiegato Iglesias – abbiamo cercato di prendere molto dal sistema italiano, per esempio il 41 bis per cercare di replicarlo come modello. Lo scorso anno abbiamo approvato una risoluzione ministeriale soprattutto per quanto riguarda il sistema di gestione delle persone private di libertà ad alto rischio, ed è stato un cambiamento fondamentale. Da un giorno all’altro siamo riusciti a ridurre fortemente la capacità operativa di queste persone che spesso utilizzavano anche dei cellulari per gestire i loro interessi. Ci siamo quindi ispirati alla legislazione italiana e abbiamo studiato il vostro sistema, le risoluzioni della Corte Europea e oggi possiamo dire che di fatto siamo quasi arrivati a dare una risposta all’altezza» all’interno delle carceri.
I precursori chimici, “moneta” di scambio
La cocaina spesso viene pagata dalle organizzazioni criminali argentine con i cosiddetti “precursori”, vale a dire quelle sostanze chimiche fondamentali nel processo di raffinazione della droga. La lotta contro il narcotraffico in Argentina passa anche nel contrastare questo mercato.
«La persecuzione del traffico illecito dei precursori chimici – ha spiegato il procuratore Iglesias –è una componente molto importante del contrasto al narcotraffico. L’Argentina è un paese che ha un’industria chimica ben sviluppata e siamo limitrofi a Bolivia, che è un paese produttore della cocaina, e così come il Perù sono paesi che richiedono precursori chimici prodotti nel nostro paese. Molte delle sostanze che arrivano nel nostro paese prevedono una sorta di scambio, vengono pagate con i precursori». Succede anche con le droghe sintetiche che giungono in Argentina dall’Europa e che diventano moneta di scambio per comprare cocaina.
Criptovalute e il sistema Hawala: così si paga la coca
Le immagini di pacchi enormi di soldi che venivano pesati e non più contati sembrano un lontano ricordo. Lo stesso principio che i cartelli usano nella ricerca di nuove rotte o di porti alternativi da cui fare partire la droga lo applicano anche per farsi pagare. L’uso delle criptovalute o del sistema Hawala da parte dei narcotrafficanti latinoamericani non è un dato nuovo, ma secondo quanto riportato da Verrier e Iglesias quelle due modalità di pagamento sono sempre più usati.
«Quello a cui stiamo osservando oggi è che di fatto c’è molto poco traffico di bulk cash smuggling, quindi di contanti “tangibili”, e aumenta esponenzialmente l’utilizzo di cryptocurrency, che sono di fatto monete che vengono collegate al valore del dollaro e che quindi non hanno queste grandi fluttuazioni, non sono così volatili». Il “bulk cash smuggling” a cui fanno riferimento gli inquirenti argentini è un’attività criminale in cui vengono trasportate ingenti somme di denaro contante oltre i confini nazionali, spesso legate a proprio ai traffici illeciti come il narcotraffico. «Quindi tutte le indagini che stiamo portando avanti di fatto vedono l’utilizzo essenzialmente di queste criptovalute. Il fenomeno dell’uso dei contanti via marittima esiste ancora, ma soprattutto sulla rotta dei Caraibi. Lì ci sono ancora dollari o euro. Ultimamente, però, si usano soprattutto i cryptoasset o cryptocurrency ». Ci sono ancora dei casi in cui, quindi, il denaro viene impiegato nelle transazioni tra i due lati dell’Atlantico, anche sono sempre meno. «Abbiamo identificato un caso di contrabbando di valute, una piccola parte della transazione viene ancora effettuata in contatti attraverso i cosiddetti “mule” (chiamati spalloni in italiano ndr), attraverso quindi delle persone a trasferire illecitamente contanti e che favoriscono il contrabbando. Oppure il sistema “Hawala”». Quest’ultimo è un sistema informale di trasferimento di denaro basato sulla fiducia e su una rete di mediatori (hawaladar). Il denaro viene trasferito tramite accordi basati sulla reputazione, dove un agente nel paese di origine riceve i fondi e un agente corrispondente nel paese di destinazione li rilascia a qualcuno che è stato designato dal mittente. «Il denaro non fluisce fisicamente, quindi, è come se la transazione non esistesse perché non è visibile e non si può tracciare».
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