Cisgiordania, in mezzo ai traumi infiniti che la guerra provoca sui bambini è nato un centro per curarli
Le file ai checkpoint. Le ambulanze bloccate ai controlli. Le donne che partoriscono durante le ore di attesa per attraversarli. I malati che hanno bisogno di cure e spesso devono posticiparle o saltarle del tutto perché trovano i checkpoint chiusi. Accade ogni giorno in Cisgiordania dove alla violenza della guerra che uccide senza fermarsi si unisce quella dei controlli forzati da parte dell’esercito israeliano sui civili. Mentre a Gaza uomini, donne e bambini muoiono di fame, malnutrizione, mancanza di qualsiasi cosa, bombardamenti anche mentre sono in fila per riempire una tanica d’acqua. Almeno 60mila vittime, più di 15mila sono bambini. Quelli che sopravvivono spesso sono rimasti soli, hanno perso fratelli, genitori, ogni possibile orizzonte. Alcuni raccontano che preferirebbero essere morti.
Silvia Amodio
In risposta alla vita che nasce e cresce sotto assedio, è nato il Soleterre Children Center, primo centro permanente per la cura del trauma psicologico infantile da guerra in Cisgiordania. Un presidio stabile, a 300 metri dall’Ospedale pubblico di Beit Jala, l’unico che garantisce cure oncologiche pediatriche. «Abbiamo creato questo centro perché in Palestina i bambini crescono in un contesto di perdita di fiducia nelle relazioni umane, immersi in una paura costante e nella convinzione che esprimere le proprie emozioni sia pericoloso. Sono risposte traumatiche profonde che ostacolano lo sviluppo affettivo, cognitivo e relazionale», spiega Damiano Rizzi, presidente di Soleterre e psiconcologo.
Insieme al lui in Palestina, il fotografo Ugo Panella ha documentato l’apertura del Soleterre Children Center, incontrando i bambini e le bambine in cura, insieme alle loro famiglie. Arrivano in buona parte da Gaza. «Chi vive in questi luoghi vive in un in un limbo continuo, significa non avere certezza di nulla. I frontelieri che da Betlemme, che è praticamente quasi al confine di Gerusalemme, fanno avanti e indietro tutti i giorni per lavorare e ogni giorno della loro vita, due o tre ore le passano ai checkpoint quando sono aperti. Quando sono chiusi non possono muoversi. Nessun programma può essere fatto se sei sotto scacco di un’occupazione militare che dalla guerra dei sei giorni ad oggi non è mai finita».
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