Salute

chiedono una fetta dei maxi ricavi della divisione militare

Per i gruppi globali della difesa quelli delle guerre in Ucraina e a Gaza sono anni memorabili. Bilanci da record, performance stellari in Borsa. Anche Boeing, nonostante le difficoltà seguite ai disastri aerei che dal 2018 hanno coinvolto alcuni suoi velivoli civili facendo centinaia di morti, è in fase di ripresa: da gennaio il titolo ha registrato un progresso di quasi il 30% e nella prima metà dell’anno l’azienda aeronautica ha visto i ricavi salire del 26% a oltre 42 miliardi di dollari, dimezzando le perdite. Oltre ad aggiudicarsi un contratto da 20 miliardi di dollari dell’US Air Force per la costruzione del caccia di sesta generazione F‑47. Piatto ricco di cui ora i lavoratori pretendono una fetta. Più di 3.200 tra quelli che assemblano i caccia F-15 di Boeing nell’area di St. Louis e in Illinois sono in sciopero da lunedì: è la prima volta dal 1996 – quando si fermarono per ben tre mesi – che gli addetti alla divisione militare del gruppo dell’aeronautica incrociano le braccia.

Il sindacato International Association of Machinists and Aerospace Workers ha proclamato l’agitazione dopo aver respinto al mittente la seconda proposta di contratto quadriennale presentata dall’azienda. Un’offerta che prevedeva, stando a Boeing, un aumento salariale del 20% spalmato su 4 anni, una crescita media delle retribuzioni (comprensive anche di scatti, premi e e benefit) del 40%, un bonus alla firma di 5.000 dollari, più ferie, permessi e progressioni retributive più frequenti. Un neoassunto con salario di 34,25 dollari l’ora passerebbe, in quattro anni, da 71.240 a 108.222 dollari annui, mentre un lavoratore al livello massimo passerebbe da 95.326 a 110.718 dollari.

I sindacalisti contestano le cifre: parlare di aumento del 40%, dicono, è fuorviante perché la maggior parte dei lavoratori non soddisferebbe i criteri per ottenerlo. Chad Stevenson, presidente del comitato sindacale nello stabilimento di St. Louis, ha spiegato al Missouri Independent che i dipendenti con più anzianità, che negli ultimi anni hanno accettato un blocco salariale per non appesantire i conti dell’azienda in un periodo di magra, non vedrebbero aumenti proporzionati. Insomma: l’aumento certo si fermerebbe al 20% e non tutti ne beneficerebbero allo stesso modo. Non solo: gli operai chiedono avanzamenti di carriera più rapidi, mentre il gruppo al momento non pare voler ritoccare un sistema in base al quale servono vent’anni per arrivare alla paga massima, il cui valore peraltro è fermo da otto anni.

Lo sciopero ha anche un volto simbolico, riporta il quotidiano locale: quello di Christy Williams, ingegnere meccanico che da tre anni lavora insieme al figlio alla produzione dei caccia F-15. Martedì, davanti ai cancelli Boeing di St. Louis, manifestava un cartello scritto a mano: “Non stiamo costruendo tostapane!”. “Mettiamo a rischio i nostri corpi con un lavoro fisico e faticoso, in un ambiente pieno di sostanze chimiche e aria sporca”, il suo racconto. “Se davvero tutti dovessero ottenere il 40% di aumento, saremmo già al lavoro. Smettetela di giocare con la matematica, dateci qualcosa di equo e fateci tornare a lavorare”. La società invece fa muro: ha fatto sapere di essere pronta a gestire la fermata del lavoro con un piano di emergenza basato su personale non sindacalizzato.

Gli operai in sciopero assemblano e fanno manutenzione sugli F-15, tra cui l’F-15EX, definito sul sito “il modo più conveniente, affidabile e immediato per rinnovare la capacità e aggiornare le potenzialità delle flotte di caccia tattici” con “costi operativi ridotti rispetto ad altri caccia, ma con un carico utile di armi quattro volte superiore e il doppio di carburante, autonomia e velocità”. Nello stesso complesso vengono prodotti anche il caccia F/A‑18 Super Hornet, il drone da rifornimento in volo MQ-25 e il nuovo addestratore T-7 per l’aviazione statunitense. Boeing sta poi espandendo le strutture produttive del Missouri per il nuovo caccia F-47A.


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