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Chi è László Krasznahorkai, Nobel per la Letteratura 2025

Pubblicato nel 1985, racconta la storia di un villaggio ai confini del mondo, dove il comunismo è ormai al tramonto, una comunità di reietti che vive nell’attesa di un ritorno: sono Irimiás e Petrina, due uomini creduti morti e che riappaiono come salvatori o impostori, il tutto immerso in un tempo sospeso – l’attesa è uno dei suoi temi principali -, una palude sia morale che fisica che diventa quasi una metafora dell’Europa di fine secolo. Proprio da quel libro nacque anche la lunga collaborazione con il regista, suo connazionale, Béla Tarr, che nel 1994 ne fece un film leggendario e ipnotico di sette ore, girato in bianco e nero, oggi considerato un capolavoro assoluto.

Dopo Sátántangó, Krasznahorkai ha composto una costellazione di romanzi che esplorano, con variazioni quasi musicali, le forme del disfacimento. Nel poeticissimo Melanconia della resistenza (uscito nel 1989 e ripubblicato in Italia nel 2018) una balena morta arriva in un piccolo paese dei Carpazi, scatenando il caos e la violenza. In Guerra e guerra (1999 e 2020), un archivista ungherese attraversa l’oceano per salvare un manoscritto, sognando di consegnarlo al futuro prima di togliersi la vita. Nel monumentale Il ritorno del barone Wenckheim (2016 e 2019), un barone decaduto torna nella sua città natale in cerca dell’amore perduto.. Infine, Herscht 07769 (2022), l’ultimo romanzo ad arrivare in Italia (e dove l’apocalisse viene ambientata in una cittadina tedesca di oggi, fra roghi e anarchia, mentre la musica perfetta di Bach fa da contrappunto), è costruito su un’unica frase lunga centinaia di pagine, estremo esempio di una scrittura composta da periodi sterminati che, aspirando a imitare il lavorìo della mente umana, ricordano la figura della spirale.

Krasznahorkai, che nel 2015 aveva ricevuto il Man Booker International Prize e nel 2019 il National Book Award per la letteratura tradotta, è il secondo autore ungherese a ricevere il Nobel dopo Imre Kertész che lo vinse nel 2002. In 71 anni di vita, ha vissuto a Berlino, in Giappone, in Cina e negli Stati Uniti, e ogni luogo ha lasciato in lui un’impronta. È da queste influenze che nasce l’unicità della sua voce, sospesa tra la tradizione mitteleuropea di Kafka, Gogol’, Bernhard, Sebald, e la spiritualità zen di un monaco errante. In un’intervista recente, alla domanda sul perché continuasse a sperare nell’arrivo di un «salvatore» ha risposto che, in quanto esseri umani, non possiamo fare a meno di sperare e di affidarci, anche, a quei falsi profeti che ci assicurano, mentendo, che le cose andranno meglio. E in questa risposta è racchiusa tutta la sua poetica.

László Krasznahorkai dunque non scrive per consolare né per spiegare, ma per mostrare la «vertigine del mondo», per farci intravedere in mezzo allo sfacelo una forma di splendore. La vera letteratura, sembra dirci, non offre risposte, ma la meraviglia della domanda. E forse, in fondo, è proprio questo che l’Accademia ha voluto celebrare: la voce di chi, nel cuore del caos, continua ostinatamente a scrivere, per ricordarci che esistere significa ancora, semplicemente, cercare.


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