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Che collier divino! | Vanity Fair Italia

Esiste un preciso genere letterario – minoritario è vero, ma assai persistente e che periodicamente fa capolino sul mercato editoriale italiano, europeo e anche nordamericano – che si propone di difendere la cultura classica, enfatizzandone il peso avuto nella nostra storia e rivendicando il ruolo che dovrebbe avere nella cultura e negli studi contemporanei. Le dimensioni dei volumi possono essere più o meno respingenti, le argomentazioni più o meno dotte, puramente estetiche oppure dagli accenti civili o patriottici, mentre lo stile varia dall’accademico estenuante al divulgativo-gigione, ma sempre emanando quel tipico sentore di battaglia persa. Per questo, a chi è interessato al tema, mi permetto di suggerire piuttosto una visita alla mostra Cartier e il Mito ai Musei Capitolini. Un viaggio attraverso quasi due secoli di oreficeria: niente di più efficace, e di appassionante, per comprendere – ed eventualmente dimostrare – la potenza dell’ispirazione classica, la sua vitalità e pervasività; verrebbe da dire la sua inevitabilità.

La Medusa di Gian Lorenzo Bernini.

La Medusa di Gian Lorenzo Bernini.

Dario Tassa

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Nelle sale del primo piano di Palazzo Nuovo, tra l’altro appena restaurate, è facile rendersi conto di come il mondo classico abbia rappresentato per la maison Cartier un riferimento costante dalla fine degli anni Quaranta dell’Ottocento, passando per il viaggio a Roma di Louis Cartier del 1923, fino al rutilante collier del 2024 ispirato a Medusa. Non però nel senso di una stella fissa o di una voce monocorde, ma di un interlocutore sfaccettato e poliedrico, che muta mentre lo si guarda, rivela sempre nuove facce e al contempo catalizza dal contemporaneo istanze e interessi, quasi portandoli a consapevolezza. È quasi incredibile passare da una teca, e poi da una sala, all’altra e constatare come dalla stessa eredità greca e romana vengano le opulente parure Secondo Impero, tornite e leziose come piacevano all’imperatrice Eugenia, ma anche gli sfavillii, ora sontuosi ora nervosi, da Belle Époque e poi le linee geometriche, asciutte e quasi taglienti degli anni Dieci e Venti, con tiare con greche e fregi partenonici, accostati agli abiti di Mariano Fortuny.

Alla Grecia e a Roma i Cartier guardarono ancora negli anni Trenta, e poi in quelli della Seconda guerra mondiale, e nei decenni a seguire, di cui sono esposti quello spiritato enigma della Spada da Accademico di Francia di Jean Cocteau, e una serie infinita di bracciali, collier, orecchini e spille dalle sinuose forme animali. Di sala in sala, di teca in teca, si apre quasi senza che ce ne accorgiamo il ventaglio di possibilità, toni, colori e linee, che l’eredità classica consente e che ha ispirato le creazioni più diverse: il filone archeologico-primitivo, quasi da tomba micenea appena riaperta, e quello della sontuosità e complessità ellenistiche; c’è poi la romanità asciutta e quasi naturalista, ancora fresca di contatti con gli Etruschi, per arrivare allo stile robusto e magniloquente di età imperiale. Alcuni elementi sono visti attraverso il filtro del Rinascimento – e non sembra nemmeno Cartier quello di certi pendenti tirati con esattezza da incisioni cinquecentesche tra l’asburgico-fiammingo e il Tudor –, mentre alcuni dimostrano di essere passati attraverso il filtro di Bernini, e dunque sinuosi e geniali, e altri da Piranesi, intriso di leggerezza rococò anche quando l’influsso romano e archeologico lo spinge ad anticipare il razionalismo di regime.


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