Certi magazine sono compagni tuoi

di Manfredi Lamartina
Quando Alberto Ferrari con la sua voce granulare e sottile – un soffio melodico accompagnato soltanto da una chitarra acustica – canta che “certi magazine sono compagni tuoi”, descrive un mondo che ha smesso di esistere all’alba del ventunesimo secolo. Quel verso, tratto da “Certi magazine” dei Verdena, è una sintesi efficace di come mille anni fa scegliere una rivista fosse una faccenda identitaria: quelle pagine parlavano di te, prima ancora che degli album che dovevi ancora scoprire. Era un filtro, a volte magari brutale, che ti costringeva a farti delle domande e a rivendicare la tua personalità.
Qualche mese fa un gruppo mi ha scritto un messaggio che è il paradigma della musica odierna: “Start at 0:56 for the verse into chorus. Thank you for considering!“. È una frase talmente assurda da sembrare distopica – se il primo minuto è inutile per la stessa band, stiamo tutti perdendo tempo. Ecco, non si tratta di un caso isolato. Ormai si suona con il cronometro al polso, cercando di non fare innervosire gli algoritmi e chiedendo scusa a chi preferisce scrollare anziché ascoltare. Il motivo che spiega, forse, questo scenario va cercato nel collasso in slow motion della critica musicale.
Tante testate internazionali hanno ridotto, trasformato, depotenziato le loro pagine dedicate alla cultura. In Italia non ne parliamo. Chi fa il mio mestiere, in effetti, si trova a un bivio perché l’impressione è che il proprio ruolo – oltre a dover fare i conti con una crisi di credibilità sulla quale andrebbe fatto un discorso a parte – sia superato dal corso degli eventi: da una parte gli algoritmi, dall’altra l’intelligenza artificiale, che sta facendo crollare le visite ai siti sintetizzando i contenuti direttamente nella prima pagina di risultati di Google. Sono abbonato a ChatGPT, quindi non ho una posizione pregiudiziale, ma è un fatto che l’AI sta avendo un impatto sulla fruizione dell’informazione e sulla sostenibilità del sistema. Il punto, però, è che quello stesso sistema è andato in crisi ben prima dell’arrivo di Sam Altman. È stata la pretesa di leggere tutto gratis ad aver provocato il cortocircuito, portando all’esplosione di titoli clickbait, articoli tarati sulla seo e pubblicità invasiva. Ma l’informazione ha un costo e forse bisogna cominciare a rendercene conto, tant’è che Stereogum ha già annunciato un aumento dei contenuti fruibili a pagamento, per bilanciare la cosiddetta “apocalisse del traffico mediatico” causata dal passaggio di Google alla ricerca basata sull’intelligenza artificiale, che ha ridotto i loro ricavi pubblicitari del 70%.

Il nodo è insieme economico e culturale, ma sembra che nessuno voglia vederlo. In fondo la domanda che circola è sempre la stessa: che senso ha una recensione, se posso ascoltare tutto quello che voglio in ogni momento e se gli algoritmi continuano a servirmi musica su misura? Il punto però è che a volte le canzoni che finiscono per emozionarti di più sono quelle non su misura dei tuoi gusti. Ecco, il giornalismo musicale è esattamente questa cosa qui: indicarti come uscire dalla tua zona di comfort ed essere felice. Un algoritmo può consigliarti che cosa ascoltare, ma non può dirti perché un album esiste, che cosa racconta del mondo intorno a noi o che cosa dice di te che lo hai scelto. La critica lega la musica alla vita, non alle percentuali di gradimento. Inoltre non è un plebiscito, bensì è il principio di una comunità. Che infatti nasce dal riconoscersi in una voce e dal confrontarsi con essa (con educazione, possibilmente).
Certo, essendo un fatto umano, il giornalismo musicale è incline all’imperfezione, all’errore, persino alle ansie di chi scrive e analizza. C’è il demone della precarietà freelance nel mondo culturale, con cui fare i conti quotidianamente. Poi c’è la difficoltà di stare al passo con le uscite discografiche: vedo in giro – da Reddit a Instagram, passando per le grandi testate – persone che riescono a essere più puntuali di me nelle segnalazioni e mi chiedo come facciano. C’è la paura dell’ipersensibilità emotiva: sentirti così preso da un gruppo da rischiare di perdere credibilità agli occhi di chi legge. Esiste anche una paura opposta, una deriva verso il cinismo che ti spinge a considerare una canzone come materiale inerte, replicabile e indistinguibile. È un modo subdolo per tradire ciò che ti ha portato, anni fa, a raccontare la musica: quello stupore misterioso che ti travolge quando premi play sull’album giusto. A tutto questo si aggiunge il timore che le cose che ami restino sempre un po’ ai margini del discorso mediatico: contenuti ottimi che raccolgono poco interesse, e viceversa. È un dubbio infido, che si insinua quando sei più fragile e ti costringe a porti la domanda peggiore: “Ne vale la pena?“. Una risposta razionale non c’è. Continuo a fare ciò che faccio perché non posso farne a meno. Perché non voglio farne a meno.
Scegli allora una testata che ti piace – generalista oppure settoriale – e supportala abbonandoti, esattamente come faresti per una band che ami. Non dare per scontato il giornalismo di qualità (che esiste eccome, pure da noi). Se certi magazine dovessero sparire sarebbe un danno sociale enorme.
Source link




