Cultura

CCCP – Live @ Ex Base NATO (Napoli, 09/07/2025)

Credit: Veronica Vecchione

La cosa più dirompente dei CCCP — oltre alla febbrile presenza scenica, oltre al calore viscerale di un pubblico napoletano capace di trasformare qualunque spazio in una piazza, una trincea o una festa — resta la potenza di queste canzoni. Canzoni nate da un mondo che, ufficialmente, non esiste più. Un mondo di blocchi contrapposti, di slogan martellanti, di divise, di simboli, di frontiere, di falsi idoli e di ipocrisie di Stato. Eppure — ed è questa la vertigine — quelle stesse canzoni, oggi, suonano non solamente attuali, ma persino più equilibrate e lucide delle cronache quotidiane, immerse in un tempo di confusione, di disprezzo gratuito, di conflitto viscerale e di finta compassione.

Se Gramsci, dalle pagine dei suoi “Quaderni dal carcere”, classico riferimento per il pensiero politico del Novecento,  ci spingeva a guardare oltre la superficie apparente degli eventi, a leggere proprio nelle pieghe della cultura popolare i segnali di un’egemonia che non è mai davvero neutra e benevola, è proprio in una serata come questa che si comprende la portata di quelle lezioni esistenziali. Perché le canzoni dei CCCP sono, insieme, derisione e profezia, rito collettivo, immaginazione e sabotaggio. Prendono il linguaggio del potere, i suoi tic nervosi, le sue frasi fatte, e lo rigirano contro chi lo ha creato. E anche se il tempo storico che ha generato tutto questo è finito da un pezzo, restano le stesse divisioni, i medesimi muri e divieti; muri — meno visibili, forse, ma più subdoli, ugualmente pericolosi, ugualmente mortali. Restano le guerre e le alleanze, restano i rigurgiti d’odio e la nostalgia dell’autoritarismo, restano quei giovani facinorosi di ieri che, oggi, magari, cercano il posto fisso proprio in quel ministero un tempo tanto criticato, odiato, contrastato e vituperato.

C’è qualcosa di profondamente gramsciano, quindi, nel corpo a corpo che i CCCP mettono in scena sul palco: un racconto di esistenze che cambiano secolo, ma non natura. Di generazioni che si specchiano nei propri paradossi, oscillando tra la ribellione a tutti i costi e la resa incondizionata, tra l’idealismo astratto e il comodo tornaconto personale. E Fatur — ancora lì ad incarnare, con grottesca coerenza, i simulacri del potere più ottuso, prepotente, sciocco, violento ed arrogante — diventa il simbolo di quanto le forme del dominio possano cambiare volto restando fedeli alla stessa funzione di controllo, manipolazione ed egemonia. Lo sanno anche loro — e lo sappiamo tutti noi, in fondo — che questo è solo un concerto, che nessun atto rivoluzionario seguirà, nessun palazzo cadrà stanotte o domani mattina. Lo dice chiaramente l’iniziale “B.B.B.”, che suona come un vero e proprio manifesto della disillusione globale attuale: viviamo tempi di disgusto, di superficialità, di perverse smanie virtuali, di rimozione collettiva della conoscenza e di indifferenza mascherata da sensibilità ad ore.

Ed è strano — terribilmente e meravigliosamente strano — ascoltare i CCCP cantare brani come “A ja ljublju SSSR” o “Morire” proprio in questo spazio. Un luogo che è stato anch’esso simbolo di dominio atlantico, di guerra fredda e di controllo militare, trasformato, per una notte, in un’arena di punk-rock popolare, dove le bandiere rosse, le falci, i martelli e la tradizione emiliana si confondono con gli smartphone, e le contraddizioni — come sempre — fanno più rumore delle chitarre. Forse è anche questo il vero senso della serata, e cioè testimoniare che la storia non è mai davvero finita, che le sue tracce, i suoi ricordi e, purtroppo, anche i suoi fantasmi più ostili resistono, si contaminano, si ripresentano travestiti. Ma dobbiamo essere convinti del fatto che, anche dentro il ventre dei luoghi del potere più dispotici ed infami, si può ancora accendere la miccia del dissenso.

Infatti, c’è un’energia pulita che scorre tra queste canzoni e i corpi stipati sotto al palco della ex base NATO. È quell’invisibile pulsazione sotterranea che ci rammenta che la cultura è organizzazione, è disciplina del proprio io interiore, è presa di coscienza e resistenza quotidiana. È il rendersi conto – e ciò vale anche per la band, ovviamente – che, al di là delle diverse visioni, delle letture, delle etichette e dei propri interessi economici e personali, quello che può davvero salvarci sono l’amore e la passione che mettiamo nelle cose, anche se esse durano solamente un attimo. Perché non importa se il sogno sovietico è morto, se la provocazione punk è diventata solo merce a buon mercato, se il sistema capitalista digerisce e rimastica tutto. Finché esisteranno canzoni capaci di sfidare, di irridere, di lasciare in eredità il gusto di prendere per il culo i padroni e i loro slogan, esisterà, di conseguenza, ancora una possibilità. E basterà anche solo un’ora, come canta Ferretti, per rimettere insieme i cocci e sentirsi, se non proprio liberi, almeno vivi:

Amami ancora / fallo dolcemente / solo per un’ora / perdutamente.


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