Carlo Lucarelli: «La salute mentale non è una priorità per la nostra società. Io sono stato punk e dark, poi ho iniziato a scrivere di serial killer. Le mie figlie adolescenti guardano le serie coreane»
Russia centrale, 23 agosto 1897. Dalla riva di un lago, un uomo guarda impassibile un altro che sta annegando e si chiede se salvarlo o no. Potrebbe essere l’incipit di un romanzo e invece è un fatto accaduto davvero. L’uomo sulla riva era lo scrittore russo Lev Tolstoj, quello che stava per annegare era il medico e criminologo italiano Cesare Lombroso. Come e perché questi due personaggi si trovassero in quella situazione lo racconta Carlo Lucarelli, in uno degli episodi della nuova docuserie La nave dei folli. Oltre la ragione, in onda dal 20 gennaio su Sky Arte alle 21.15 e in streaming su NOW. Attraverso le vite eccentriche di sei protagonisti del passato, il programma offre una riflessione sulla neurodiversità nel mondo di ieri e, per forza di cose, anche di oggi. «Trovo che la follia e tutto quel che significa sia un argomento nelle mie corde. Nella docuserie abbiamo raccolto le storie di alcuni personaggi che i contemporanei e la società giudicavano matti. Alla fine molti di questi matti avevano in mente un’idea del futuro e del mondo diversa che con il senno di poi si è rivelata bella, giusta, importante. Viene da chiedersi chi erano davvero i folli: loro che vedevano le cose in quel modo o chi li condannava?».
Chi decide chi sono i matti?
«In alcuni casi la storia. Si prenda Nerone: la tradizione storica ci ha fatto credere che sia davvero il folle che suona la cetra mentre Roma brucia, e invece l’imperatore romano è stato soprattutto molto altro. In certi casi, invece, la follia la decreta il potere: Giovanna la Pazza viene considerata tale perché politicamente serve che sia così. Lo abbiamo visto più volte: i dissidenti sono matti e vanno internati lontani da tutti».
Lei ha mai temuto di poter salire sulla nave dei folli?
«Succede a tanti. Ormai c’è anche una maggiore consapevolezza che ci rende più accorti. Per certi versi, quando ero un giovane scrittore, lo auspicavo: “Se non sono matto, che scrittore sono?”. Però alla fine non ho mai fatto niente di strano. A parte essere un punk, se la vogliamo considerare stravaganza».
Aveva i capelli con la cresta?
«Prima di tutto mi piaceva quel genere di musica e le cose che venivano dette, mi piaceva anche quel modo di vestirsi e la trasgressione che rappresentava. Ammetto che era bello andarsene in giro tra la gente che mi guardava e diceva: “Tu sei strano, non sei come gli altri”. Mi andava benissimo. Dopo la fase punk sono diventato dark: ma anche lì non era solo per una questione estetica. Mi piaceva quel mondo, quei film, quell’atmosfera che poi per molti di noi è diventato il noir. Smetti di parlare di vampiri e inizi a scrivere di serial killer, come ho fatto io. Poi resti vestito così, sempre di nero, un po’ perché rimane quel gusto, un po’ perché il nero è un’uniforme per lo scrittore di gialli, e un po’ perché snellisce».
Paolo Cognetti ha raccontato di aver subito un Tso, recentemente. Pensa che uno scrittore, un artista, possa essere più a rischio per certe problematiche?
«I mestiere dello scrittore in effetti ti costringe a infilarti nelle storie di qualcuno che non sei tu, oppure magari lo sei nelle pieghe più intime della tua mente. Può darsi che per scrivere si sia costretti a tirare fuori delle cose che fanno stare male, come quando si va dallo psicanalista. Inoltre uno scrittore ha sempre al centro della sua attenzione l’animo e la mente. Mi spiace molto per quello che è accaduto a Cognetti e credo, comunque, che queste difficoltà riguardino tutti: abbiamo bambini in sofferenza dalla pandemia, adolescenti inquieti, anziani soli. Molti manifestano disagio».
A proposito di giovani, lei ha due figlie gemelle. Come sono?
«Hanno 13 anni. Tutti quelli che hanno avuto figli passati per l’adolescenza mi dicono: “Vedrai”. Per ora le vedo ancora bambine, ma con delle contraddizioni assurde. Guardano serie coreane di una violenza che spaventa anche me, poi se i protagonisti si baciano mandano avanti veloce, ridacchiano e si imbarazzano. Sono strane e inquiete ma sono ancora due bambine che si fanno raccontare le storie di sera. Vedremo. Del resto sono stato adolescente anche io, ma ero tranquillo, non ho mai fatto casini».
Lei è discendente dell’inventore Antonio Meucci, mentre il secondo marito di sua madre ha tra gli antenati Alessandro Manzoni. Sono personaggi che in qualche modo la ispirano?
«Sono uno dei pochi a cui piace molto il romanzo dei Promessi sposi, secondo me è un grande noir. Però mi incuriosisce di più Meucci, ha avuto una vita avventurosa, era un rivoluzionario, è scappato dalla Toscana per evitare l’impiccaggione. In America ha fondato la fabbrica di candele in cui ha lavorato anche il suo amico Giuseppe Garibaldi. Inventò il telefono con la membrana morbida che lo rendeva funzionante, ma non aveva i soldi per brevettarlo e fu battuto da Bell. È un geniale eroico perdente, nato nel posto sbagliato perché era italiano e povero. Se fosse stato ricco e americano, dicono i miei parenti Meucci, chissà quanti soldi avremmo avuto noi lontani discendenti».
Tra i tanti misteri della storia italiana e della cronaca di cui si è occupato negli anni, con i suoi libri e le trasmissioni, ce n’è uno in particolare che vorrebbe veder risolto?
«Ce ne sono molti. Alcuni li vorrei vedere completamente risolti per poter finalmente avere la base di una memoria condivisa per il nostro Paese. Uno di questi è la strage di Bologna, di cui sappiamo tanto, quasi tutto. Ma ci mancano alcuni piccoli dettagli: conoscerli ci farebbe dire che finalmente abbiamo il quadro chiaro, da lì si potrebbe partire per ripensare un’altra repubblica».
C’è anche un mistero che fa parte della sua storia familiare e riguarda suo padre Guido, ematologo di chiara fama, che a un certo punto si trovò accusato per la morte di 9 persone nel suo reparto. Fu assolto. Potrebbe scriverci un libro?
«Mi piacerebbe prima o poi raccontare questa vicenda. Io non l’ho vissuta, perché i miei erano già separati e stavo con mia madre. L’ospedale di Pesaro dove lavorava era quello dove si salvavano i bambini, mio padre è il pioniere del trapianto di midollo per la cura della talassemia e nella mia logica è uno dei prossimi premi Nobel per la medicina. Poi all’improvviso l’ospedale è diventato quello dove muoiono i bambini. I processi, che hanno tutti assolto mio padre, hanno potuto soltanto constatare che sono morte delle persone ma non si sa perché. È una vicenda misteriosa che forse si potrebbe investigare».
Allora il giallista è una persona che si fa una domanda in più?
«Sì ma non come il complottista, per il quale c’è sempre un’altra spiegazione, a prescindere. Però è vero: noi giallisti siamo abituati a pensare male».
Source link