Cannes 2025, da “O agente segreto” a “Die, My Love”: un cinema che vuole guardare alla sua genesi
Come da auspicio, prosegue l’onda di elevata qualità sulla Croisette. Punte altissime, come il brasiliano O agente segreto di Kleber Mendonça Filho; ottimi film, come Die, My Love di Lynne Ramsay, Nouvelle Vague di Richard Linklater, Mirrors n.3 di Christian Petzold; discreti lavori come Eagles of the Republic di Tarik Saleh, La petite derniére di Hafsia Herzi. E anche qualche sonora delusione come Alpha di Julia Ducournau, già vincitrice della Palma d’oro nel 2021 con Titan.
Per lo più tutti ancorati ai generi classici, con le dovute contaminazioni, rivisitazioni e de-strutturazioni della post-modernità, questi titoli segnalano nel bene (in un caso nel male) il desiderio (o l’esigenza?) di un cinema che vuole guardare alla sua genesi per distinguersi dalla proliferazione della mediocrità da mini-schermo.
L’esplosione multicolore e multietnica alle atmosfere della Recife del 1977 ne è il miglior esempio: al suo quarto lungometraggio di finzione, Kleber Mendonça Filho ascrive O agente segreto nei canoni dello spy movie dal sottotetto politico, ma perfettamente mescolato al thriller, al family drama, alla commedia socio-antropologica nel suo farsi riflessione sulla ricerca identitaria e le sue memorie attraverso il tempo, ma anche sul cinema come luogo dove la Storia agisce e si trasmette come il sangue donato. L’ombra della dittatura brasiliana è il fantasma che disturba l’esistenze dei protagonisti, a partire dal protagonista Armando/Marcelo (un magnifico Wagner Moura), un ricercatore universitario vedovo sulla lista nera del regime, che torna nella natìa Recife per recuperare il figlioletto rimasto coi nonni. Insieme ad altri esuli, rifugiati, ricercati sotto falso nome, è ospite di Dona Sebastiana, un’anziana già anarchica e comunista che capisce oltre le parole. Un film di scrittura, regia e interpretazioni perfette, capace di usare il cinema come specchio di un passato che parla al presente e che può accordare critica e grande pubblico.
Notevoli sono anche le prove della scozzese Lynne Ramsay con Die, My Love, un dramma thriller psicologico viscerale, visionario e stratificato sulla depressione post partum con una Jennifer Lawrence da premio e il divertente ancorché filologico omaggio ad À bout de souffle (Fino all’ultimo respiro) da parte di un Richard Linklater versione cinéphile français. Il suo Nouvelle Vague sulla genesi e il day by day sul set del film che rivoluzionò il modo di fare e interpretare il cinema diretto dal genio di Jean-Luc Godard, sarebbe stato, in effetti, perfetto come apertura fuori concorso di questo 78° festival.
È invece inserito nella sezione parallela e autonoma Quinzaine des Cinéastes l’intenso e rigoroso benché sulla carta “piccolo” Mirrors n.3 di Christian Petzold. Come sempre regista di sottrazioni e magnifici fuori campo, il cineasta berlinese è riuscito con quattro attori, una casa e due biciclette a costituire uno spaccato esistenziale sia realistico che immaginifico, denso di fantasmi, scambi di identità, riconciliazioni interiori.
Tornando infine al concorso, se Eagles of the Republic di Tarik Saleh e La petite derniére di Hafsia Herzi (già attrice per Kechiche) si pongono sul cinema di “discreto” livello, di buona fattura e certamente da festival – il primo è uno spy-consipiracy movie profondamente politico quale terza parte della trilogia del regista svedese-egiziano sul Cairo, il secondo è un romanzo di formazione di un’adolescente franco-algerina che riesce a trovare un equilibrio tra la fede islamica e la propria omosessualità – la seconda delusione finora di Cannes 2025 arriva da Alpha di Julia Ducournau. Pur non abbandonando temi e stile, la trionfatrice sulla Croisette ne 2021 con Titan ha composto un’opera di fantascienza umanista e distopica a tinte fortissime che, mettendo in scena un’epidemia che marmorizza i corpi tra il 1982 e il 1990 con evidenti echi all’esplosione dell’AIDS, rievoca il terrore da contagio da Covid-19 in una società che non comunica e dove solo il sangue sano della protagonista adolescente può ridare speranza, almeno simbolicamente. Peccato che Ducournau abbia infarcito il suo testo di uno sguardo di accumuli esasperato ed esasperante, tra visioni e musiche assordanti ed onnipresenti che purtroppo non hanno giovato a un lavoro dalle premesse certamente interessanti.
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