Cancellare il tetto alla retribuzione nella Pa non è demagogia
Una decisione che non concede nulla a demagogia e populismi, motivando non solo sul piano giuridico, ma anche su quello economico e sociologico. Questo, in estrema sintesi, è la sentenza n. 135 del 2025 della Corte costituzionale, che ha cancellato il “tetto” alle retribuzioni dei funzionari pubblici introdotto dall’art. 13, comma 1, del DL 24.4.2014, n. 66, convertito, con modificazioni, nella legge 23.6.2014, n. 89, ripristinando – a decorrere dalla pubblicazione della sentenza – la vigenza della legge antecedente.
Sul piano giuridico, la sentenza chiarisce che Il “tetto retributivo” è stato introdotto nel 2011 in una situazione di instabilità finanziaria di eccezionale gravità, indotta da una forte crisi del debito sovrano italiano. Che poteva avere una giustificazione solo se a carattere congiunturale e temporaneo, rispetto ad una situazione del tutto particolare. Tanto che, a soli tre anni di distanza dall’entrata in vigore dell’art. 13, comma 1, del d.l. n. 66 del 2014, la stessa Corte ebbe a escludere che fosse stato illegittimamente compresso in modo permanente, e non solo in via temporanea, il livello retributivo in questione (sent. n. 124 del 2017). Una conclusione, questa, che per la sentenza n. 135 non può essere confermata, nel 2025, a distanza di oltre dieci anni dall’adozione della disposizione censurata e nell’ambito di un contesto normativo e fattuale del tutto differente, deponente, univocamente, nel senso del carattere ormai strutturale (nel senso di permanente) del tetto.
In secondo luogo, la Corte mostra di padroneggiare appieno il dato finanziario. Ma anche in questo caso, rifuggendo il conformismo (stavolta, austeritista). Se, infatti, da un lato esclude la retroattività degli effetti della declaratoria di incostituzonalità, con le conseguenti restituzioni, dall’altro non si contenta né dell’intendimento declamato in occasione dell’introduzione del tetto (in concreto ribassista, rispetto a tante posizioni apicali) – ovvero il generico contenimento della spesa pubblica – né dei risparmi pronosticati all’epoca dell’entrata in vigore dall’art. 13, comma 1, del DL 24.4.2014, n. 66. Piuttosto, li cerca, questi risparmi, e li trova, nell’ufficialità del Rendiconto generale dello Stato per il 2015, che certifica: a fronte di 86 mln preventivati, solo 4,5 effettivamente conseguiti. Il 5%, con picchi, negli anni successivi, comunque inferiori al 25%.
Infine, la sentenza trae dal riferito dato finanziario a consuntivo l’occasione per una lezione di sano buon senso, di fronte a quello che in questi anni il “tetto” ha finito distortamente per rappresentare nella pubblica amministrazione, e cioè solo un’operazione di livellamento indiscriminato sul limite massimo di euro 240 mila lordi: dunque, a prescindere da tipo di lavoro, percorso formativo, livello di qualificazione, e, anche da questo punto di vista su base individuale, portata delle responsabilità.
Nell’oggettivazione, con la forza della cruda algebra, della indicata distanza abnorme fra i risparmi attesi e quelli realmente conseguiti, la Corte non può infatti trattenersi dal fare un’acuta notazione, quasi sociologica, osservando che siffatta linea di tendenza dei risparmi «potrebbe anche avvalorare l’ipotesi che i dipendenti pubblici con le retribuzioni più elevate abbiano preferito rinunciare all’assolvimento di incarichi aggiuntivi piuttosto che subire gli effetti del massimale retributivo, con la conseguenza di disperdere l’apporto di elevate professionalità, ma senza realizzare apprezzabili risparmi».
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