Bu Cuarón: «Noi donne non siamo estensioni di un marito, di un figlio o di un padre. Non si valuta se un’artista donna sia brava o meno, si pensa sempre a chi c’è dietro di lei»
Questo articolo è pubblicato sul numero 46 di Vanity Fair in edicola fino al 12 novembre 2024.
Bu Cuarón dall’altra parte dello schermo parla velocemente e si dà il ritmo con le mani. «Sono a Londra e oggi fa così caldo che mi sono messa gli shorts», dice, «di per sé non sarebbe negativo, ma il cambiamento climatico mi preoccupa». Fa una pausa, e poi tutto d’un fiato: «C’è una parola tedesca che mi piace moltissimo, Weltschmerz, indica la tristezza provocata dal mondo, che sia per un motivo politico, per una guerra o appunto per il cambiamento climatico. Io ne soffro e mi rattrista sapere che molte persone non prendono sul serio la salute del Pianeta. L’unico modo per andare avanti, però, è essere ottimisti perché solo se lo sei puoi cambiare le cose. La mia generazione non deve perdere la speranza, a 20 anni abbiamo il dovere di crederci».
Nata nel 2003, Bu Cuarón ha in sé tre lingue e più di un continente. Figlia del regista messicano Alfonso Cuarón e dell’ex moglie italiana, l’attrice e giornalista Annalisa Bugliani, è cresciuta tra New York, Londra, Pietrasanta e il Messico. Ha chiesto in regalo un disco dei Beatles quando aveva quattro anni, e poco dopo ha iniziato a suonare il violino, la chitarra e il pianoforte. Per frequentare il Conservatorio di Lucca ha scelto quest’ultimo strumento, a 13 anni ha scritto la sua prima canzone. Non ha più smesso. Il suo Ep d’esordio, Drop By When You Drop Dead, contiene sei brani, tutti scritti e prodotti da lei. «In verità voglio finire l’università», precisa, «studio Filosofia, Politica, Sociologia e Psicologia a Londra. La notte precedente al mio primo concerto a Città del Messico ho sostenuto un esame via Zoom: Neuroscienza, dalle 3 alle 7 del mattino. Non ho dormito per niente, ma studiare è il modo migliore per conoscere il mondo».
Che cosa vede intorno in questo momento?
«Problemi che purtroppo non si risolvono in un giorno. L’immigrazione, le guerre, è tutto connesso. I flussi migratori, per esempio, spesso riguardano la scarsa disponibilità d’acqua, la questione più complicata che affronteremo nei prossimi anni. Vorrei esprimermi solo sulla mia musica, che è la cosa che conosco meglio, ma finisco sempre a parlare di altri argomenti che mi interessano. Sarà perché sono Capricorno con la luna in Vergine».
Il suo nome Tess Bu chi l’ha scelto?
«Sono Tess solo sul passaporto. Bu l’hanno scelto entrambi i miei genitori, viene da Monsters & Co. (che è un film del 2001). Il personaggio, in realtà, si chiama Boo ma i miei hanno preferito la u alla latina».
Ha trascorso l’adolescenza in Italia, che ricordi ha?
«Sono felice di aver potuto sperimentare la dimensione di una piccola città, Pietrasanta
ha 24 mila abitanti. Ringrazio mia madre per avermi portato in provincia, in questo modo ho anche avuto la possibilità di frequentare il Conservatorio di Lucca. Oggi sento di essere italiana, o almeno so che dentro di me convivono sprazzi d’Italia. Sono italiana quando vado al bar a bere il caffè, ma ho un debole per la moka».
Rifarebbe l’esperienza del Conservatorio?
«È stata molto difficile e impegnativa. Subito non ne ho capito l’importanza ma, a mano a mano che ho iniziato a sperimentare con la mia musica e a conoscere altri artisti, ho compreso che non tutti hanno la fortuna di avere avuto solide basi. Se avessi completato il ciclo, avrei ottenuto un diploma universitario in musica prima di aver finito il liceo, ma mi sono trasferita a Londra».
Chi le ha trasmesso l’amore per i Beatles?
«Mio padre. Quando ero piccola avevamo un iPod di famiglia e lui caricava lì la musica che voleva far ascoltare a me e a mio fratello (Olmo, 19 anni, ndr). Mi ha fatto scoprire i Rolling Stones, gli Who, e ovviamente i Beatles. Eravamo ossessionati dai Fab Four, erano la colonna sonora dei nostri viaggi in macchina. Un’altra canzone che ricordo di quell’iPod è Empire State of Mind di Jay-Z, è stata la mia preferita per diversi anni».
Nella prima canzone del suo Ep, Come for Me, canta: «Sei proprio come tuo padre/Troppo complicato/Sei proprio come tua madre/Vuoi essere altro».
«A 14 anni litigavo spesso con i miei genitori: lo scontro è stato fondamentale per la mia creatività».
È stato più difficile emanciparsi a causa del suo cognome importante?
«La mia famiglia di artisti ha ovviamente influenzato la mia indole, ma ho sempre saputo che cosa volevo essere. Un cognome è solo un adesivo, un’etichetta che si aggiunge alla tua personalità. Capisco che per alcune persone io possa essere solo la “figlia di”, ma è un qualcosa che voglio cambiare. Si tratta di un tema che non riguarda solo me, ma la società che continua a etichettare le donne come se fossero sempre l’estensione di un uomo. Una donna viene sempre legata a un marito, un figlio, un padre o un fratello. Non si valuta semplicemente se un’artista è brava o meno, si pensa sempre a chi c’è dietro di lei».
Pensa che, per raggiungere la parità di genere, ci stiamo muovendo sulla giusta strada?
«Stiamo facendo molti passi in avanti, ma non è solo questione di quantità. Esempio: all’ultimo festival a cui ho partecipato, il 50 per cento degli artisti sul palco erano donne. Ma chi c’era dietro le quinte? Ingegneri del suono, produttori, manager. Tutti uomini».
Lei produce i suoi brani da sola.
«Sì e pensavo fosse una cosa normalissima finché non hanno iniziato a farmelo notare. Le persone intorno mi dicevano: “Perché non ti rivolgi a un uomo più grande?”. Oppure: “Hai bisogno di un produttore vero”. Queste frasi mi hanno mandato in crisi, ho ritardato l’uscita dei miei brani perché pensavo che non potessi farcela da sola. A un certo punto mi sono buttata. Oggi mi piace poter essere d’esempio per altre ragazze più giovani. In passato, per esempio, le ragazze non sapevano che potevano diventare calciatrici. Ora sì. Se posso contribuire a rompere il soffitto di cristallo, sono qui».
La copertina del suo album è un cubo di Rubik.
«Il motivo è semplice, sono affetta da sinestesia, una condizione secondo cui due sensi, percepiti come distinti, si manifestano contemporaneamente. Nel mio caso, associo i colori alle emozioni, e mi capita anche con le persone. In questo Ep ci sono sei brani e quindi sei colori».
A Milano ha portato anche suo fratello sul palco.
«Avere Olmo come fratello è il privilegio più grande della mia vita perché è un genio, a volte non riesco a capirlo nemmeno io. Suona diversi strumenti, produce musica. In questo momento sta studiando animazione, ma ci piace molto esibirci insieme. Ha un orecchio assoluto, mi fido ciecamente dei suoi consigli e del suo istinto. È il mio migliore amico».
Che rapporto ha con i social?
«In questo momento ho un cellulare con cui posso solo andare su Google o consultare le mappe. Ho cancellato tutti i social, posso controllare i miei profili da un iPad che tengo a casa, di solito lo faccio la sera. Durante il corso della giornata voglio essere concentrata, presente al mondo in cui abito. Anche i social possono essere una dipendenza, e io sono contraria a tutte le dipendenze. Non ho mai fatto uso di droghe e non bevo. Esiste un’app che misura le ore che trascorri sui social, e secondo le statistiche la maggior parte delle persone li consulta per almeno sette, otto ore al giorno. Abbiamo paura di annoiarci, di guardare dentro noi stessi. Ma se non posso controllare come funziona il mondo, io voglio almeno controllare il mio rapporto con la tecnologia».
Lei che cosa fa quando si annoia?
«Ieri ho fatto ceramica, in passato dipingevo. Ho la casa piena di pennelli. In realtà, ogni momento è buono per dedicarmi alla mia musica. Ma ho un’altra regola: tengo la vita universitaria separata dal resto. I miei compagni di corso non sanno che sono un’artista, ho un profilo Instagram privato con cui mi relaziono con loro. Non si tratta di mentire, ma di mettere lo studio al primo posto».
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