Bruce Springsteen – Nebraska ’82: Expanded Edition: Acustico o elettrico? Il doppio volto del capolavoro del Boss :: Le Recensioni di OndaRock

Tutta questione di luce. Per Bruce Springsteen, è la luce a definire l’essenza di “Nebraska“. La penombra di quella camera da letto a Colts Neck, New Jersey, dove i fantasmi delle sue notti hanno preso forma: un chiaroscuro impossibile da riprodurre in uno studio professionale. “Quello che alterò le cose quando entrammo in studio fu la luce che risplendeva sulla musica e sull’ascoltatore. Rovinammo la luce. Tutto aveva un riflesso diverso”.
Mentre al cinema arriva la traduzione hollywoodiana della genesi di “Nebraska” (“Springsteen: Liberami dal nulla“), gli archivi del Boss ci riportano dove tutto è cominciato, con una “Expanded Edition” che va ad aggiungersi dopo appena pochi mesi al recupero degli album perduti di “Tracks II“.
Una mappa per tornare a “Nebraska” (rimasterizzato per l’occasione) che passa attraverso tre luoghi diversi, e tre diversi generi di luce: la casa affittata da Springsteen dopo la fine del tour di “The River“, da cui riemergono le outtake delle registrazioni originali dell’album, all’inizio del 1982; gli studi Power Station di New York, pochi mesi dopo, con la E Street Band impegnata a cercare di strappare quelle canzoni dalla solitudine, nelle sessioni del leggendario “Electric Nebraska”; e per finire, il palco del Count Basie Theatre di Red Bank, New Jersey, dove Springsteen si è cimentato nuovamente, all’inizio di quest’anno, con i dieci capitoli dell’album.
Colts Neck Blues Revisited
Si riparte da “Born In The U.S.A.“, ed è quasi inevitabile che sia così: anche se la versione di Colts Neck era già stata pubblicata nel primo “Tracks”, la sua esclusione da “Nebraska” è l’unico vero rimpianto che Springsteen mostra di avere ancora oggi rispetto alla scaletta finale dell’album. “Avrei dovuto mettere ‘Born In The U.S.A.’ su entrambi i dischi”, confessa. Di certo avrebbe evitato molti dei travisamenti che hanno accompagnato la storia di uno dei brani più emblematici del suo repertorio.
Quella chitarra scheletrica e quella voce sommersa di eco, quasi provenisse da un’altra dimensione, sono le stesse che Jon Landau si è trovato di fronte quando ha ascoltato per la prima volta la cassetta Maxell dei demo di Colts Neck, accompagnata solo da una nota manoscritta in cui Springsteen presentava le canzoni affidate al registratore a quattro piste della sua camera da letto.
Il primo disco della raccolta, “Nebraska Outtakes”, svela proprio i tasselli mancanti di quella cassetta, a cominciare dalla dolcezza senza speranza di “Child Bride”: è la canzone da cui nascerà “Working On The Highway”, ma qui c’è solo la storia di un amore proibito destinato a finire male, dietro le sbarre di una prigione. Niente ritornelli giocosi, nessuna promessa di redenzione. Piuttosto, una fiaba gotica punteggiata dal suono del glockenspiel (omaggio alla colonna sonora de “La rabbia giovane” di Terrence Malick e alla sua tragica perdita dell’innocenza), che evoca la malvagità del mondo con le stesse parole di Flannery O’Connor (“See she’s just a little girl/ Who don’t know nothing ‘bout/ The meanness in this world”).
Poi ecco “Downbound Train”, ma non ha niente a che vedere con quella che siamo abituati a conoscere: la notte insonne è la stessa, solo che al posto di una visione intrisa di amarezza c’è un incubo febbricitante, fomentato dagli accordi ruvidi e veloci della chitarra acustica. All’opposto, “Pink Cadillac” si insinua al rallentatore, come una macchina infernale posseduta dallo spettro di Elvis, prendendo un tono più minaccioso che leggero. E la violenza, il cuore di tenebra di “Nebraska”, si riaffaccia nelle atmosfere noir di “Losin’ Kind”, immaginata da Springsteen come un racconto alla James M. Cain: il protagonista, alla maniera di “Highway Patrolman”, declina subito le sue generalità (“My name is Frank Davis, driver Dixie 109”), mentre il mandolino si intreccia alle note della chitarra; ma Springsteen insegue l’ombra del proprio lato oscuro, attraverso questi personaggi condannati a vedere la vita sfuggire loro di mano.
Per trovare gli inediti veri e propri del disco, quelli mai apparsi finora nemmeno in forma di bootleg, bisogna attendere le ultime due tracce, frutto del tentativo di ricreare in studio l’intimità acustica di Colts Neck. “On The Prowl” è un apocrifo Sun Records fremente di eccitazione, che va a sfociare nel riverbero ossessivo di un un’unica parola – “searchin'” – carica al tempo stesso di desiderio e di sconfitta. “Gun In Every Home”, invece, si presenta come una ballata folk dall’apparenza delicata, ma nasconde una feroce caricatura del sogno americano (“Two cars in each garage/ And a gun in every home”), che ribadisce a suo modo l’attualità di “Nebraska”: la capacità di cogliere quell’istante in cui, per usare le parole di Springsteen, “ciò che ti lega al lavoro, alla famiglia, agli amici, all’amore e alla grazia che porti nel cuore viene meno”. Nel 1982, all’inizio dell’era reaganiana, quel senso di isolamento esistenziale abitava ai margini della società; oggi, ormai, sembra avere contagiato ogni cosa: “Se quei legami scivolano via, cominci a esistere in una specie di vuoto. E tutto può accadere”.
Nowhere to run, nowhere to go
Ma le attese, inutile girarci intorno, sono tutte concentrate sul secondo disco del cofanetto, quell'”Electric Nebraska” favoleggiato per oltre quarant’anni dai fan. E gli otto brani che ora vengono finalmente portati alla luce offrono uno spaccato che non delude le aspettative.
Proprio “Born In The U.S.A.” – quella che, secondo gli appunti consegnati a Landau da Springsteen, avrebbe dovuto essere suonata come “un rock molto duro” – è la prima grande sorpresa: manca ancora il marchio inconfondibile del synth di Roy Bittan e l’andamento riprende quello del demo originale, ma il livore tagliente della chitarra e l’incalzare della batteria di Max Weinberg hanno una potenza implacabile, capace di insinuarsi sotto la pelle. “Un rock ‘n’ roll primitivo, quasi ferino”, lo definisce Springsteen a posteriori. La E Street Band è ridotta all’osso – solo chitarra, basso e batteria – e anche “Atlantic City” prende una veste tesa e drammatica, primo canovaccio della versione elettrica del brano che Springsteen porterà sul palco, oltre che parente stretta della quasi coeva “Murder Incorporated”.
La formazione si allarga – ma sempre con la significativa assenza del sax di Clarence Clemons – e su una morbida “Mansion On The Hill” l’organo di Danny Federici si distende con il sapore nostalgico delle ballate di “The River“, mentre “Downbound Train” sembra posseduta da una foga esuberante.
Ma allora, che cosa c’è che non funziona in queste sessioni, tanto da spingere Springsteen a tornare alla nudità della sua cassetta originale?
Lo si capisce bene quando, alla seconda strofa di “Nebraska”, la band prova a entrare un po’ timidamente in scena: quel senso di vuoto e di immobilità che rappresenta l’anima del brano, quella voce “spettrale e monocorde” che Springsteen sentiva intorno a sé quando non riusciva a chiudere occhio la notte, è andato irrimediabilmente perduto. Lo stesso succede con “Reason To Believe”, che all’ingresso del gruppo sembra scivolare in un blues quasi innocuo.
“Johnny 99” organizza una festa da ballo sugli accenti honky-tonk del piano di Roy Bittan, “Open All Night” tira a lucido il suo rockabilly in stile Johnny Cash: ma in mezzo al suono della band, Springsteen non riesce più a ritrovare il tono giusto dei brani. È la voce dei personaggi che si è smarrita: “Volevo che l’ascoltatore percepisse i pensieri dei personaggi, le loro scelte. Quei pezzi erano l’esatto contrario del rock che avevo scritto fino ad allora. Controllati e immobili in superficie, nascondevano un mondo di ambiguità e disagio morale”. Per ritrovare i suoi personaggi, la rockstar doveva fare un passo indietro. “Volevo diventare il più possibile invisibile. Volevo solo essere un altro fantasma”.
Everything dies, baby, that’s a fact
Primavera 2025. La platea vuota di un teatro, una chitarra e un microfono sul palco. Il trentenne incerto sulla direzione da prendere nella vita, ora, ha lasciato il posto a un settantenne la cui vita è diventata letteralmente un film. Con il sobrio accompagnamento di Charlie Giordano e Larry Campbell, Springsteen ripercorre “Nebraska” dall’inizio alla fine. La sua voce risuona scavata, non nasconde le inflessioni più rauche. Potrebbe arrivare direttamente dai nastri perduti di qualche vecchio bluesman.
Al contrario del passato, Springsteen sceglie la fedeltà agli originali, invece della riscrittura (basti pensare alla versione distorta e luciferina di “Reason To Believe” che aveva portato in scena ai tempi del tour di “Devils & Dust“). Il risultato è necessariamente meno intrigante, e anche un po’ incline a quello spirito autocelebrativo affiorato nelle ultime tournée del songwriter americano. Ma i brani che hanno più a che vedere con la memoria, da “My Father’s House” a “Used Cars”, riescono a trovare oggi una prospettiva diversa, in cui sembra di poter toccare con mano la profondità del tempo di una vita.
Il fatto è che la luce di quella stanza affacciata sul bacino idrico di Colts Neck, ancora una volta, resta una contingenza irripetibile. “È successo una volta. Per caso”, ammette Springsteen. “La seconda volta che lo fai, la situazione si carica di intenzionalità”. E invece è proprio la mancanza di intenzionalità ad avere fatto di “Nebraska” una sorta di manuale di istruzioni dell’estetica lo-fi. “Una pittura rupestre nell’era della fotografia”, per usare la definizione di Warren Zanes nel suo “Liberami dal nulla“, da cui è stato tratto il film con Jeremy Allen White.
L’esistenza stessa di un album del genere, mentre nei negozi di dischi arrivava “Thriller” di Michael Jackson, rappresenta qualcosa di simile a un’anomalia del sistema. Qualcosa che non avrebbe dovuto esserci, e invece c’è.
Le canzoni scartate, i tentativi a vuoto, le strade non imboccate: tutto, in quel percorso tortuoso restituito dagli archivi, esalta ancora di più l’incompiutezza di “Nebraska“. È lì che si nasconde il segreto. Nei contorni non rifiniti, nelle parole non riviste. A volte, come diceva Flannery O’Connor, si scrive per sapere quello che si pensa davvero. A volte, non lo si scopre finché non si rileggono le proprie parole. O finché non si riascolta il nastro di una cassetta estratta dalla tasca dei jeans.
27/10/2025




