Bridget Hayden And The Apparitions
Todmorden, West Yorkshire, una settimana d’estate dell’anno 2022. Una scarna e suggestiva cornice strumentale (violoncello, armonium, banjo, violino e sintetizzatore), una voce immobile ed evocativa al pari di un fiore che sboccia all’improvviso senza far rumore, cacofonie scheletriche eppur frementi e vitali: tutto qui. Immaginare che tutto questo è stato registrato in piena calma e libertà tra le mura di un municipio è sorprendente.
Nel curriculum di Bridget Hayden fa bella mostra la presenza nel collettivo Vibracathedral Orchestra di Neil Campbell, un gruppo di artisti che, sulla scia di La Monte Young, ha sperimentato insolite e stimolanti connessioni tra musica acustica ed elettronica, che ha visto tra i suoi membri anche Richard Youngs e Adam Davenport. Un’altra tappa tanto importante quanto fugace è quella al comando della band psych/lo-fi Schisms; non va poi dimenticata la collaborazione sia in studio che sul palco con i Telescopes, oltre a vari progetti a proprio nome infarciti di drone music, sperimentazione e spoken word, ed è quindi giusto catalogare l’Apparition come il primo ensemble folk dell’artista inglese, anche se Bridget ha condiviso con Sam McLoughlin un delizioso progetto per la Folklore Tapes: “A Web Of Braided Willow (Folklore Of The Wickerman)”.
Sono poche e intense emozioni, quelle che agitano la struggente ballata che apre l’album, “Lovely On The Water”, una canzone dei primi anni del Novecento che racconta lo strazio di due amanti separati dalla crudeltà della guerra: Bridget Hayden si sofferma su ogni attimo, su ogni respiro sia lirico che strumentale, fino a lenire il dolore dei protagonisti e trasformare il brano in una celebrazione dell’amore sulla morte.
Nota nella bella versione di Shirley Collins, “Are You Going To Leave” è un’altra intensa pagina della musica folk che Hayden interpreta con rassegnata sofferenza. L’attenzione cade sul dettaglio, su quell’impercettibile bagliore che in questo caso è rappresentato dalla purezza delle emozioni e dalla mesta sofferenza del canto, dettagli che donano respiro a ognuna delle otto tracce. Ed è infatti nel tremolio dell’armonium e nella spettrale bellezza del canto che è racchiusa la seduzione dell’ennesima versione di “She Moved Throught The Fayre”, una canzone popolare che, nelle sue infinite mutazioni di titolo e personaggi coinvolti e con le sue arie medievali ed orientaleggianti, è diventata una delle pagine più note ed evocative della tradizione irlandese.
L’armonium di Sam McLoughlin e il violino di Dan Bridgewood-Hill tessono un inquietante e seducente tappeto sonoro che permette alla voce di Bridget Hyaden di alternare delicati toni pastorali (“When I Was In My Prime”, portata al successo dai Pentangle) ad aspre e solitarie cadenze blues (“Red Rocking Chair”, con un abbraccio algido che lascia filtrare le emozioni come aliti di vento in una giornata afosa e desertica).
“Cold Blows The Rain” è un disco che spesso deforma la natura delle composizioni tradizionali reinterpretate, nel riuscito intento di aggiungere ulteriore incanto a brani già solenni e gravi quanto basta per tenere lontano qualsiasi tentativo di omologazione. In quest’ottica, assume particolare importanza la presenza di un episodio come “Factory Girl”, una dolente ballata che riecheggiò potentemente negli anni 50, quando la realtà del mondo industriale incrociò il destino di una generazione di donne imbrigliate nelle regole del mondo imprenditoriale e che Hayden interpreta con sincero pathos.
Già resa eterna da Anne Briggs e Sandy Denny, “Backwater Side” è un’altra delle pagine più intense dell’album. Banjo e drone-music fanno da sfondo a un’interpretazione sublime, la voce si espande e risuona nel tentativo disperato di far giungere a destinazione un messaggio d’amore tra le tante increspature generate dalla guerra, quasi a voler rimarcare che dietro ogni conflitto non c’è solo il sangue degli uomini caduti in combattimento, ma anche la straziante solitudine di donne e madri funestata dall’incertezza e dalla precarietà del futuro.
“Cold Blows The Rain” è un disco che racconta l’intensità del dolore con una delicatezza e una dolcezza tipicamente invernali, riflessive, struggenti. Gli otto minuti abbondanti di “The Unquiet Grave” (anche nota come “Cold Blows The Wind”) ne sigillano l’austero romanticismo, con una vecchia ballata risalente al quattordicesimo secolo, dove protagonista è lo spirito di una donna che chiede al suo amato di non versare più lacrime per la propria morte, di lasciarlo in pace e di non chiederle un ultimo bacio, per riabbracciare la vita. Ancora una volta Bridget Hayden si cimenta con una canzone che in molti hanno interpretato nell’ultimo secolo, soprattutto dopo la Seconda guerra mondiale, ma l’intensità che riesce a donarle è unica, incomparabile. Un altro momento di pura poesia per un disco che non dimenticheremo velocemente.