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Botulino, l’esperto: «Ecco dove si nascondono i rischi»

Il Quotidiano del Sud
Botulino, l’esperto: «Ecco dove si nascondono i rischi»

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Intervista al professor Stefano Curcio dell’Unical sui rischi da botulino: «Bisogna fare attenzione ai preparati casalinghi ma anche alla conservazione di quelli industriali»

«QUELLO che si sta verificando in questi giorni a Cosenza, con il cluster di intossicazioni da botulino, è molto serio ed è importante non minimizzare. Ma senza creare allarmismi: occorre fornire ai cittadini le giuste informazioni. A due aspetti occorre prestare attenzione: alle preparazioni domestiche, per chi fa conserve in casa, e a come si usano e conservano anche quelle industriali».

Raggiungiamo al telefono il professor Stefano Curcio, direttore del Dipartimento di Ingegneria Informatica, Modellistica, Elettronica e Sistemistica dell’Unical e professore ordinario di Principi di Ingegneria chimica, con una lunga esperienza, didattica e di ricerca, nel campo dell’ingegneria alimentare.

Professor Curcio, partiamo dall’inizio: cos’è il botulino?

«Con botulino intendiamo la tossina botulinica sviluppata, in particolari condizioni, dalle spore rilasciate dal Clostridium botulinum, un microrganismo che può contaminare diversi alimenti. Ad essere nociva per gli esseri umani – altamente nociva fino a rivelarsi, in base alla concentrazione, anche fatale – è proprio la tossina, che è una neurotossina».

Quali condizioni favoriscono i rischi dello sviluppo del botulino?

«Un ph poco acido – già superiore a 4,6 – l’assenza di ossigeno, perché si tratta di un microrganismo che cresce e prolifera in ambiente anaerobico, la disponibilità di acqua libera. Come tutti gli esseri viventi è in acqua che sopravvive. Queste condizioni si annullano facilmente nella produzione industriale».

In che modo?

«Protocolli standardizzati e apparecchiature non riproducibili in condizioni domestiche. Le faccio l’esempio delle conserve – le tipiche verdure sott’olio – che vengono più frequentemente associate ai rischi del botulino (e sono l’alimento sotto accusa nel caso di Diamante, ndr). Nella produzione industriale vengono sterilizzare con autoclavi che raggiungono temperature dell’ordine di 121 gradi per almeno 3 minuti, uccidendo eventuali spore. A casa quello che di norma si fa è lessare le verdure: l’acqua, a livello del mare, bolle a 100 gradi – temperatura che scende se si sale di quota – ma basta solo per eliminare il microrganismo. Ma le spore potrebbe averle già rilasciate prima».

Il professor Stefano Curcio, direttore del Dipartimento di Ingegneria Informatica, Modellistica, Elettronica e Sistemistica dell’Unical e professore ordinario di Principi di Ingegneria chimica.

Gli esiti delle analisi e delle verifiche in corso ci diranno qualcosa di più sul caso Diamante. In linea però teorica e generale, l’ipotesi che la contaminazione non fosse nel prodotto – industriale – di partenza ma nella conservazione e nell’uso che ne è stato fatto è plausibile?

«Sì, può accadere. Se viene conservato fuori dal frigorifero e sta al caldo, se si usano contenitori contaminati, se non vengono coperti… Le condizioni di conservazione e utilizzo possono indurre variabili imprevedibili. Il microrganismo è disponibile in natura. Tenga conto che in letteratura sono documentati, per quanto rari, casi di infezione da ferita. Se il microrganismo rilascia spore e ci sono condizioni favorevoli – nell’alimento aperto e mal conservato – per la proliferazione, si rischia che si sviluppi la tossina con gli esiti, in caso di consumo, che conosciamo. Ovviamente, questo in linea teorica. Non possiamo fare allo stato ipotesi su quanto successo, sarebbero illazioni».

Quindi anche a casa dobbiamo fare attenzione nella conservazione delle conserve industriali, una volta aperte.

«Certo, bisogna attenersi alle indicazioni. Anche se la confezione in origine era microbiologicamente sicura, perché trattata a 121 gradi e le spore erano quindi eliminate o disattivate, se la conservi male dopo l’apertura ti esponi sempre al rischio, tra contaminazioni crociate e alte temperature, di far ripartire il processo. Se io apro una confezione industriale, quindi, devo conservarla in frigo, perché le basse temperature rallentano le cinetiche di sviluppo, e devo consumarlo nel giro di pochi giorni».

Chi fa le conserve a casa, può seguire delle regole per stare sicuro?

«Ripeto, a casa non hai la possibilità di misurare il ph o l’acqua libera o di raggiungere i 121 gradi. Ci sono però delle regole che possono guidare una più corretta preparazione. Per quanto riguarda il ph, ad esempio, dovremmo riprendere le lezioni delle nostre nonne, che suggerivano di bollire le verdure in acqua e aceto in proporzioni uguali, così da garantirti un ambiente più acido che non fa sviluppare la tossina. Poi i barattoli vanno bolliti, per un tempo congruo. È riportato in letteratura che un’esposizione a 100° anche di 5-6 ore può non escludere l’eliminazione delle spore del Clostridium botulinum. Un altro parametro è l’attività dell’acqua libera. Ogni essere vivente ha bisogno di acqua e se la trova libera prolifera. Come si risolve in casa? L’acqua va “legata” con sale o zucchero a seconda della preparazione. Quindi, attenzione alle marmellate senza zucchero: in casa non si possono fare. Anzi, soprattutto per la frutta non acida, bisognerebbe seguire la vecchia regola del tanto zucchero quanta frutta. Per le olive – tra gli alimenti con i maggiori rischi per botulino – è importante invece il sale, di solito in una percentuale non inferiore al 15%. Per le conserve di pomodoro possiamo stare più tranquilli, perché è un vegetale molto acido. Ma attenzione a una corretta bollitura dei barattoli. Ripeto, non bisogna fare allarmismo, ma un minimo di regole di base è bene tenerle presente. Nel 2014 il ministero della Salute e l’Iss hanno diffuso un vademecum utilissimo, di cui consiglio sempre la lettura».

La regola del clic clac del coperchio, quando acquistiamo in negozio conserve, è sempre valida?

«Sì, come osservare eventuali rigonfiamenti. Non solo per il rischio botulismo. In ogni caso resta una regola empirica».

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