Cultura

Boosta + Adrian Sherwood – Live @ Pomigliano Jazz (Pomigliano d’Arco 05/9/2025)

Credit: Michele Sanseverino

C’è qualcosa di straordinariamente simbolico nel trasformare una stazione ferroviaria in un teatro. La Circumvesuviana di Pomigliano d’Arco, luogo di passaggi rapidi e di destini che si sfiorano senza toccarsi, si è fatta, ieri sera, scena di un rito collettivo: il Pomigliano Jazz. Una stazione, con i suoi disordini quotidiani, le sue precarietà emotive e materiali, è diventata crocevia di speranze – di una ripartenza possibile, di un arrivo atteso a lungo, di un incontro che, troppo spesso, ci viene negato.

Non un luogo scelto a caso: le stazioni e le periferie sono da sempre marchiate come problematiche, tossiche, marginali. Territori ridotti a simboli negativi, esempi da evitare, utilizzati come paragoni per sentirci, altrove, più forti, più sani, più fortunati. Eppure il mondo è uno solo. Gli interessi e le economie globali scorrono libere, invisibili come le correnti elettriche, mentre alle persone comuni è concesso solo di subirne gli effetti dispotici. I potenti accumulano ricchezza e influenza, ma, intanto, la grammatica velenosa di questo sistema trascina il pianeta verso l’implosione: popoli sterminati, affamati, costretti a vivere nel terrore tra case sventrate da missili e droni.

Le voci di dolore e di persecuzione si sovrappongono come un coro infinito. E in quella stazione-teatro, ieri sera, altre voci si sono intrecciate: quelle della musica. Jazz ed elettronica, pianoforte e rumorismo, lampi di luce che provano a resistere al buco nero della paura e del pregiudizio, della follia e della violenza che, un tempo, avremmo chiamato semplicemente “Sole”.

Boosta ha evocato questo “Black Hole Sun” con un pianoforte classico che non resta mai chiuso in sé stesso, ma si apre al dialogo con una moderna postazione elettronica. Le trame acustiche e ricercate si sono fuse con rumori, colpi, distorsioni, esperimenti sonori: un linguaggio ibrido, fatto di intimità e di tecnologia, che non dimentica però di restare umano, reale, vero.

Nella seconda parte della serata Adrian Sherwood, maestro del dub, ha innestato i suoi ritmi caldi ed avvolgenti in un’altra dimensione, quella di “FIRE”: un’opera che unisce musica, video, scienza, ambiente, società e politica. Qui il suono non è solamente intrattenimento, ma messaggio: il mondo muore nell’indifferenza di chi potrebbe salvarlo, di chi si illude che basti un drone o un algoritmo per ristabilire l’ordine. Ma la violenza, la distruzione e la paura non sono mai possibili soluzioni: sono la miccia di un incendio atomico che nessuno riuscirà a fermare.

Il Pomigliano Jazz, nella stazione della Circumvesuviana, ha mostrato come l’arte possa ancora illuminare i luoghi dimenticati, le terre sfruttate e le popolazioni umiliate, scardinando le narrazioni tossiche del nostro presente e tentando di ridare senso a ciò che appare condannato, per sempre, solamente al degrado, all’infamia, alla criminalità. Boosta e Sherwood hanno portato luce nel cuore del buio: ed è lì, in quello spazio fragile e instabile, che la musica si fa ancora necessaria, indispensabile, salvifica, vitale.


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