Bonnie “Prince” Billy – The Purple Bird: :: Le Recensioni di OndaRock
Una grammatica semplice per vite difficili: si potrebbe provare a riassumerla così, l’essenza della musica country. Ovvero, come raccontare in una lingua fatta per parlare a tutti che vivere e morire sono cose terribilmente complicate.
Will Oldham lo sa benissimo, visto che con la sua anima agreste ha dialogato lungo tutta una carriera, soprattutto nei panni di Bonnie “Prince” Billy. Stavolta, però, c’è qualcosa di più. Perché “The Purple Bird” si presenta come un vero e proprio trasloco al cuore di Nashville, con la complicità di un nome decisivo: quello di David Ferguson.
Più che un semplice produttore, Ferguson a Nashville è una specie di istituzione, un veterano della consolle che ha lavorato con gente come Johnny Cash, John Prine, Sturgill Simpson… Ed è stato proprio ai tempi delle “American Recordings” dell’Uomo in Nero che lui e Oldham si sono conosciuti. Da allora, tra i due si è cementata un’amicizia spigolosa e viscerale, capace di convincere Oldham a fidarsi come raramente gli era capitato prima. Dando vita a uno dei lavori più coinvolgenti della sua sterminata discografia.
“If you’re asking my opinion/ I’m just an ordinary man”. Di solito, in un brano come l’iniziale “Turned To Dust (Rolling On)”, Oldham avrebbe cercato la via più obliqua per arrivare al punto. Qui, invece, si lascia trasportare dal calore del piano e dell’hammond, asseconda senza esitare la limpidezza della melodia. “Right is right, wrong is wrong/ No matter what side you’re standing on”, canta sciogliendo con disarmante saggezza il nodo del nostro stato di guerra universale.
“Tu canta e basta”, è stata la raccomandazione di Ferguson, “tutti gli altri ti verranno dietro”. Così, Oldham è riuscito a trovare la chiave di un tipo di abbandono inedito per lui, nonostante tutte le collaborazioni che hanno costellato il suo percorso: “Quando ho risentito la mia voce, ho fatto un passo indietro e mi sono detto: oh, questa è una persona che non avevo mai incontrato…”.
D’altra parte, “The Purple Bird” non è solo il risultato delle registrazioni al fianco della “migliore band disponibile a Nashville”, come proclama orgogliosamente Ferguson. È anche il frutto delle vere e proprie “sessioni di songwriting” in cui il produttore del Tennessee ha coinvolto Oldham: un esercizio di scrittura collettiva al fianco di cantautori come Pat McLaughlin, Ronnie Bowman e John Anderson (che duetta con Oldham sulle note di “Downstream”), che conferisce un inatteso classicismo alle canzoni firmate Bonnie “Prince” Billy. Il classicismo di un “mondo pre-digitale”, per dirlo con le sue stesse parole, che ha poco a che spartire con il ritorno dell’hype intorno all’universo country.
Non c’è da stupirsi, insomma, che i brani del disco si aprano a un fiorire di fiddle, di mandolino e di armonie vocali. L’honky tonk giocoso di “Tonight With The Dogs I’m Sleeping” brilla al luccichio dei fiati, la polka di “Guns Are For Cowards” danza a braccetto con la fisarmonica, alzando la voce contro le armi attraverso un coro dal sapore alcolico. Tra la carezza dolceamara di “Boise, Idaho” e la leggerezza esistenziale di “The Water’s Fine”, i momenti che portano impresso in maniera più riconoscibile il marchio di Bonnie “Prince” Billy sono alla fine anche quelli dalle tonalità più ombrose, da “Sometimes It’s Hard To Breathe” a “London May” (in cui le iniziali dei versi vanno a comporre il nome dell’amico ex-batterista dei Samhain, a cui è dedicato il brano).
Oldham sembra contemplare l’alchimia di queste canzoni con uno sguardo stupito, come suggerisce l’immagine scelta per la copertina (basata sulla rielaborazione di un disegno d’infanzia di Ferguson), in cui il “purple bird” del titolo diventa una sorta di figura simbolica della musica di Nashville: “Ho voluto raffigurarmi in una sorta di stato di shock, soggezione e meraviglia di fronte a questa enorme bestia pazza, perché è più o meno quello che ho sempre provato durante la realizzazione del disco”.
Sullo scheletro di un arpeggio, la voce di Oldham trasforma “Is My Living In Vain?” delle Clark Sisters – portata sul palco anche nel recente tour italiano – in una sorta di rarefatto gospel appalachiano, dove all’incalzare delle domande (“Is my living in vain?/ Is my giving in vain?”) risponde l’impeto di una certezza: “No no, of course not/ It’s not all in vain/ Because up the road is eternal gain”. La sfida è continuare a sperare anche nell’oscurità dei nostri tempi. La sfida è riuscire di nuovo a costruire una casa, come annuncia il passo festoso di “Our Home”, un luogo in cui poter davvero abitare. È un inno corale, un gran finale che chiama in scena un altro apostolo del country, Tim O’Brien. La speranza rinasce dalle cose più semplici, come la capacità di guardarsi dritti negli occhi: “Look in the eyes of the people we meet/ That’s how we make it our home”.
11/04/2025