Blue Prince batte i colossi!
Poteva sembrare un folle azzardo, eppure quel complicato miscuglio tra roguelite e puzzle ambientali che prende il nome di Blue Prince si è rivelato un enorme successo di critica, con il titolo che attualmente siede in vetta alla classifica dei migliori videogiochi dell’anno secondo Metacritic (qui trovate la nostra recensione di Blue Prince). Un’opera del genere è spesso caratterizzata da intuizioni geniali, ma soprattutto da un faticoso lavoro quotidiano che in questo caso porta anche una firma italiana: abbiamo potuto conversare con Davide Pellino, l’art director di Blue Prince, analizzando non solo l’opera prima di Dogubomb ma anche il panorama artistico e professionale che circonda una figura come la sua.
La lunga gestazione
Everyeye.it: Blue Prince è stato un progetto di vita per il suo creatore Tonda Ros e il suo sviluppo è durato otto anni, in quale momento sei stato coinvolto? Ma soprattutto mi piacerebbe sapere in che modo.
Davide Pellino: Era Settembre del 2017, io avevo cominciato da un paio di anni a sviluppare un piccolo portfolio e lo stile delle cose che facevo era simile a quello che poi si sarebbe visto in Blue Prince. Una mattina trovo semplicemente una mail in cui Tonda Ros mi scrive “scusami se ti disturbo, ma avrei bisogno di una risposta”.
Ero convinto che si trattasse di spam, ma per curiosità ho cercato tra la casella della posta indesiderata e ho trovato altre quattro mail precedenti nelle quali mi aveva spiegato l’intero progetto e mi chiedeva di esserne il direttore artistico. L’unica mail che era passata oltre il filtro era l’ultima, perché non aveva allegati, e se non avessi risposto subito avrebbe contattato qualcun altro. Ovviamente gli ho risposto immediatamente spiegandogli l’accaduto e lui mi ha ricontattato dicendomi che non c’era più tempo e che mi avrebbe telefonato. All’inizio ero intimorito perché prima di allora avevo lavorato soltanto a progetti molto piccoli, non sapevo come avrei dovuto pormi in veste di direttore artistico. Ricordo questa call in cui ero terrorizzato, ma dovevo sembrare professionale e per fortuna è andata bene.
Everyeye.it: Quindi 2017, ti sei imbarcato anche tu in questo viaggio fin dal primo giorno.
Davide Pellino: Dall’inizio, sì. Quando sono arrivato c’era soltanto una build che strutturalmente era Blue Prince, la casa, le stanze e così via, fatta soltanto di asset senza alcuno stile visivo. Il progetto sembrava fin da subito molto interessante, e quando sono entrato il mio lavoro era quello di rifare completamente il lato artistico, eliminare gli asset precedenti e sostituirli per dare un senso complessivo al tutto. Ci sono voluti due anni per riuscirci.
Eravamo soltanto in tre: io, Attilio di Gaeta e Luca de Felice, i miei due collaboratori che mi porto dietro ad ogni progetto. Inizialmente credevamo che bastasse soltanto una persona ma, vedendo quanto era grande il gioco, ho fatto capire a Tonda che non avrei mai potuto farcela da solo. Lui è di una precisione maniacale (ma di una precisione piacevole, perché avevo indicazioni per tutto) e mi aveva dato una lista con migliaia di asset da ridisegnare… fu chiaro anche per lui che non era fattibile in tempi rapidi senza l’aiuto di qualcun altro.
Everyeye.it: Quali erano le indicazioni che ti arrivavano? Come si è evoluto Blue Prince? Sempre che si sia evoluto, oppure l’idea originale è rimasta granitica durante tutto lo sviluppo?
Davide Pellino: Sull’idea fondamentale, cioè riguardo cosa fosse il gioco, è stato inamovibile. Per quanto riguarda le indicazioni è complicato da spiegare, perché lui non mi spiegava esattamente a cosa sarebbe servito un determinato oggetto da modellare per non anticiparmi nulla. Mi diceva come doveva essere fatta una determinata cosa, ma non perché. Non ti nascondo che ho trovato un mio modello dopo 150 ore di gioco, e soltanto lì ho capito il motivo dietro le sue indicazioni: da questo punto di vista è stato bello lavorarci, perché al contrario ci sono altri designer che ti dicono “sei tu il direttore artistico, spetta a te fare questa determinata cosa”, invece Tonda voleva essere coinvolto.
Everyeye.it: Mi hai detto che i tuoi concept erano già molto simili a quelli che adesso vediamo nel gioco, questo significa che Tonda ha accettato il tuo stile e si è fatto guidare dalle tue inclinazioni visive?
Davide Pellino: È stato più un incontrarsi a metà strada. Quasi tutto il gioco è opera sua, direi anche un 85%, ma lui non è né un modellatore né un 3D artist. Le sue indicazioni erano precise ma come raggiungerle effettivamente era a nostra discrezione. La nostra scelta è stata quella di creare gli asset in maniera procedurale: avendo quella famosa lista con migliaia di cose da sviluppare ci siamo resi conto che non avremmo mai potuto disegnare ogni texture a mano, quindi ci serviva il modo di coprire tutto il gioco utilizzando soltanto tre o quattro texture.

Il grosso del mio lavoro secondo me è stato proprio questo. Blue Prince, nonostante sia molto grande, è al tempo stesso molto piccolo e uniforme, questo proprio perché è disegnato a partire da poche texture che in qualche modo “si sovrappongono” in maniera diversa su ogni oggetto. Può sembrare una cosa banale ma dal punto di vista tecnico è stato molto complicato.
I diversi strati dell’enigma
Everyeye.it: Quali sono stati gli aspetti del tuo lavoro che ti hanno entusiasmato di più, e di quali invece conservi un pessimo ricordo?
Davide Pellino: Cominciamo da quelli più brutti, e cioè quelli collegati alla produzione dell’opera in linea generale. Fermo restando che mi considero un privilegiato a poter lavorare sviluppando videogiochi, ci sono anche giornate in cui tutto va storto e l’umore crolla.
Si vivono spesso momenti di tensione a causa delle deadline da rispettare, mentre ci sono ancora tante cose che non funzionano o che si rompono nonostante funzionassero fino al giorno prima. Il problema è molto evidente quando lo studio è piccolo perché se c’è un errore siete magari in due a doverlo risolvere: tu non ci riesci, io nemmeno, e lì la situazione diventa complicata. Cominci a mettere in discussione l’utilità del tuo lavoro, perché hai sempre il dubbio che per quanto sia bella l’idea che ti è venuta non riuscirai a farla funzionare, ti scoraggi. Ho ricordi di giorni in cui credevo che nel giro di poco sarebbe finito tutto, che non saremmo riusciti a venirne a capo. Tra i momenti più belli sicuramente ci sono quelli in cui abbiamo lavorato alle stanze. All’inizio sembrava una cosa semplice ma, come è evidente per tutti quelli che hanno giocato a Blue Prince, non lo è per niente. Ad esempio, in base a dove “drafti” una stanza questa può essere cieca o può avere le finestre: questa cosa è stata difficilissima da farmi capire senza poter vedere il gioco! Dopo settimane di disegni Tonda mi dice “vanno benissimo, adesso fammi la stessa stanza, ma con le finestre” e io non riuscivo a comprendere come fosse possibile… costruire in questo modo ogni singolo ambiente è stato come mettere insieme tanti piccoli pezzi di un puzzle, ed è sicuramente tra i momenti più divertenti.
Everyeye.it: Mi piacerebbe sapere come avete sviluppato artisticamente il tema dei cromatismi all’interno del gioco, e quanto ha pesato sul tuo lavoro quotidiano. I colori in Blue Prince non sono affatto casuali, significano sempre qualcosa, e nascondono anche un sottotesto molto importante ai fini della trama.
Davide Pellino: Assolutamente sì, hai centrato il punto. Il mio lavoro infatti è stato quello di definire immediatamente i colori. Può sembrare anche in questo caso una facezia e invece era importantissimo: un determinato oggetto di una certa categoria deve avere una precisa colorazione che non deve cambiare mai, andava quindi fissata una palette cromatica con dei limiti. Dopo svariate calibrazioni abbiamo raggiunto una palette molto contenuta e questo ci ha anche aiutato durante il lavoro, perché sviluppare un gioco per otto anni ti costringe spesso a rivedere alcune vecchie decisioni, ma in questo caso no, i colori sono stati un punto fisso all’interno della programmazione. Per quanto riguarda il tema dei sottotesti che citavi invece quella è opera di Tonda, era lui a modificare o a spostare determinati oggetti (con i loro colori) in base a quello che potevano significare all’interno del gioco.
Everyeye.it: Rimanendo in tema di significati nascosti, sei a conoscenza di riferimenti che collegano Blue Prince ad altre opere, oppure al mondo reale? Il dubbio sorge spontaneo quando tra i ringraziamenti finali compare un certo Daniel Mullins…
Davide Pellino: Che io sappia no, non c’è nulla che richieda l’intervento di un’intera community per essere risolto ed il motivo è molto semplice: Tonda non è un grande appassionato di queste cose. Ogni singolo riferimento è sempre contenuto all’interno del gioco, e anche per questo non abbiamo piani per DLC o altri contenuti futuri. Dopo otto anni di sviluppo l’opera è conclusa, non c’è nulla da aggiungere, a parte le solite patch di correzione ovviamente.
Fare arte è un mestiere complicato
Everyeye.it: Voglio approfittare di una figura professionale come la tua, che solitamente non riceve le stesse attenzioni riservate ai suoi colleghi, per spiegare con parole semplici cosa fa esattamente un direttore artistico, e perché è un ruolo essenziale all’interno di un team di sviluppo.
Davide Pellino: La maggior parte delle volte quello che arriva ai direttori artistici è un prototipo di gioco grezzo, funzionante ma costruito soltanto con asset generali, insieme ad un’idea che per iscritto descrive le intenzioni dello sviluppatore. Riempire il grande vuoto che separa questi due estremi è il nostro compito generale, ed è molto complesso tecnicamente, perché bisogna costruire un piano di lavoro che rispetti dei tempi precisi e rientri all’interno dei costi.
A questo punto – almeno nel mio caso – il direttore artistico lavora personalmente ad alcuni asset per poi spiegarli al resto del team, così da definire una linea di lavoro comune per tutti. Da lì ovviamente comincia la gestione della squadra, capire cosa sta funzionando e cosa invece va cambiato per rispettare quel programma che è stato deciso all’inizio.
Everyeye.it: E invece cosa significa essere un art designer, non per forza in ambito videoludico, in Italia? Che prospettive ci sono nel nostro Paese per quelli che vorrebbero intraprendere questo lavoro?
Davide Pellino: Guarda la situazione te la posso spiegare in maniera molto semplice: negli ultimi dieci anni ho partecipato a dieci diversi videogiochi, senza considerare collaborazioni ed altri lavori più piccoli, e nessuno di questi è stato sviluppato in Italia.
Non ti posso parlare male del panorama italiano perché io non te ne posso parlare e basta, per me non esiste. Io ho sfruttato la mia testardaggine, mi sono convinto a inviare curriculum negli Stati Uniti e piano piano, prima con piccoli lavoretti e poi sempre più in alto, ho cominciato a lavorare seriamente in questo campo. Qui quando parli con qualcuno e gli dici che sviluppi videogiochi la sua risposta è sempre “Sì, ma per lavoro cosa fai?”. È scoraggiante. Se posso permettermi di dare un consiglio a chiunque sia interessato quindi è imparare bene l’inglese, rivolgersi all’estero e soprattutto definire il proprio profilo professionale. Io inizialmente volevo fare tutto: il disegnatore, l’animatore, l’illustratore, lo sviluppatore… ma le aziende non sono interessate ai tuttofare. Può sembrare banale, ma appena mi è stato detto che dovevo trovare un indirizzo specifico le cose sono cambiate, dopo meno di un mese mi assunse uno studio piccolissimo per fare soltanto le sedie del loro videogioco. Era orribile ma mi pagavano, era un vero lavoro, e da lì ho cominciato a costruire la mia carriera.
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