Big Tech, perché prevenire è meglio che curare
* professore di Economia all’Università Bocconi e fellow dell’Institute for European Policymaking
In un recente articolo sul Financial Times, il premio Nobel per l’Economia Daron Acemoglu ha sostenuto che Stati Uniti ed Europa devono agire contro la svolta monopolistica dei colossi del tech. Acemoglu ha giustamente evidenziato come la concentrazione dei mercati digitali possa corrodere la democrazia, soffocare l’innovazione e impoverire il giornalismo indipendente.
Il suo appello a un rafforzamento dell’antitrust — incluse operazioni di spezzatino dei grandi gruppi e tassazione punitiva — risulta in sintonia con la crescente preoccupazione per il potere delle piattaforme dominanti. Tuttavia, se vogliamo davvero promuovere un’innovazione e una concorrenza sostenibili, la risposta deve andare oltre i rimedi ex post come le multe o lo smembramento dei grandi gruppi.
L’esperienza dimostra che gli “spezzatini”, pur talvolta necessari, sono strumenti rozzi e di efficacia incerta. L’innovazione, in particolare nell’economia digitale, prospera grazie alle dimensioni. La vera sfida non è quindi tanto contenere la dimensione delle aziende tecnologiche di successo, quanto l’uso che esse fanno della loro taglia: se per sostenere ecosistemi dinamici o per consolidare un controllo monopolistico.
In Europa stiamo perseguendo una strategia diversa, che potrebbe offrire basi più solide per ripristinare la concorrenza. All’Institute for European Policymaking della Bocconi (IEP@BU), insieme a ricercatori della Toulouse School of Economics, abbiamo pubblicato un rapporto che propone un approccio più lungimirante: non solo punire gli abusi dopo che si sono verificati, ma stabilire regole chiare ex ante per impedire che la posizione dominante si traduca in abuso.
Il nostro messaggio è semplice: l’innovazione ha bisogno di regole che rafforzino, non solo di interventi che smantellino.
Il Digital Markets Act (DMA), ora in fase di attuazione in tutta l’Unione europea, incarna proprio questa filosofia. Non condanna il successo né punisce la scala. Identifica invece quei servizi di piattaforma essenziali in cui i “gatekeeper” — aziende con potere d’intermediazione consolidato — devono rispettare obblighi specifici per garantire una concorrenza equa.
Questi obblighi comprendono il divieto di favoritismi verso i propri servizi, l’obbligo di garantire l’interoperabilità e requisiti di trasparenza nei mercati della pubblicità digitale.
È fondamentale sottolineare che il DMA prende di mira solo quegli attori la cui posizione rischia di condizionare interi ecosistemi, lasciando ampio spazio di crescita e innovazione ai concorrenti minori.
Questo quadro normativo riconosce che le grandi piattaforme possono generare valore significativo ma che, senza regole, possono anche bloccare i mercati, mettere ai margini i rivali ed erodere le basi stesse delle nostre società democratiche. Invece di attendere anni per la conclusione di indagini antitrust, il DMA mira a impedire che i comportamenti anticoncorrenziali attecchiscano.
Il caso della pubblicità
Acemoglu sottolinea giustamente i rischi derivanti dal dominio di Google nella pubblicità digitale.
La nostra ricerca arriva a una diagnosi simile: la struttura dei mercati dell’ad tech spesso convoglia profitti sproporzionati verso gli intermediari, a scapito di editori e inserzionisti.
Tuttavia, laddove Acemoglu propone la tassazione come correttivo principale — suggerendo un prelievo del 50 per cento sui ricavi pubblicitari digitali oltre una certa soglia — noi avvertiamo che misure fiscali invasive, se mal progettate, possono finire per rafforzare i player già dominanti.
Le tasse possono aumentare i costi per i nuovi entranti e accelerare la concentrazione del mercato, specie se gli incumbent sono meglio posizionati per assorbire o trasferire tali costi su altri soggetti.
L’esperienza passata indica che sarebbe difficile evitare il ribaltamento di tali imposte su inserzionisti ed editori.
Serve invece un approccio regolatorio più raffinato. Il nostro rapporto suggerisce di integrare gli obblighi di trasparenza del DMA con regole standardizzate di condivisione dei dati per le piattaforme pubblicitarie, in modo che gli inserzionisti possano valutare meglio le performance e cambiare fornitore.
Ridurre il lock-in, favorire l’interoperabilità e rompere le asimmetrie informative sono strategie che hanno maggiori probabilità di sostenere la pressione concorrenziale nel tempo rispetto alla sola imposizione fiscale.
Questa distinzione è cruciale. Nell’economia digitale, dove gli effetti di rete e i vantaggi informativi si amplificano rapidamente, la regolazione deve non solo contenere gli abusi ma anche abbassare attivamente le barriere all’ingresso e all’espansione.
Regole ben concepite possono alimentare mercati competitivi senza soffocare le economie di scala legittime.
La storia offre lezioni preziose: lo smembramento di AT&T negli Stati Uniti ha alla lunga favorito l’innovazione nelle telecomunicazioni, ma fu la scelta di dare in licenza i brevetti dei laboratori Bell — un intervento che diffuse le capacità tecnologiche — a gettare molte delle basi per la rivoluzione digitale.
La scelta fondamentale
L’approccio europeo non è privo di sfide. Come sottolinea il nostro rapporto, l’efficacia del DMA dipenderà da un’applicazione coerente, dalla chiarezza giuridica e dalla capacità di adattarsi all’evoluzione delle tecnologie e delle dinamiche di mercato.
La regolazione deve essere ferma ma prevedibile, in grado di stimolare investimenti di lungo periodo accanto alla concorrenza.
Gli sforzi regolatori devono guardare già oggi alla prossima ondata di tecnologie decentralizzate — blockchain, applicazioni Web3 e reti di calcolo distribuite.
Questi modelli emergenti offrono un’opportunità per riequilibrare i mercati digitali, ma richiederanno quadri normativi aggiornati che riconoscano nuove forme di organizzazione e proprietà.
La futura competitività dell’Europa dipenderà dalla capacità di anticipare questi cambiamenti, non solo di reagire alle piattaforme oggi dominanti.
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