‘Biancorossi per sempre’, il difensore Pasquale Loseto
Ottavo appuntamento di “Biancorossi per sempre”, che si cimenta in uno dei calciatori più rappresentativi della storia del Bari: il grintoso difensore Pasquale Loseto, appartenente a una famiglia di calciatori diventata simbolo della città. Nato a Bari, nella città vecchia, il 12 giugno 1945, coi biancorossi ha collezionato 129 presenze in campionato (dalla C alla A), dal 1964 al 1973, conquistando due promozioni (in B nel 1966-67 e in A nel 1968-69). Appese le scarpette al chiodo, per lunghissimi anni ha allenato con successo le giovanili dei ‘galletti’, lanciando in prima squadra numerosi talenti. Oggi, 80enne, continua a giocare con gli amici a calcio a 11, e allena la squadra dei commercialisti di Bari, con cui ha ottenuto numerosi trofei nazionali.
Pasquale, è uno dei tre fratelli diventati bandiere del Bari. Il calcio nel Dna?
“Eravamo cinque fratelli, tutti bravi a giocare a calcio. Siamo stati bravi a innamorarci del calcio, a usare la testa e a sfruttare la fortuna”.
Com’è nata la passione per la sfera di cuoio?
“A 8 anni, quando andavo allo stadio a vedere giocare i miei due zii, Nicola e Giovanni Chiricallo, mi innamorai del Bari e della maglia biancorossa a V. Anche l’allenatore del Bari, Capocasale, era cugino di mia madre. Il mio sogno da bambino era di giocare su quel campo”.
Dove ha tirato i primi calci?
“Sono di Bari vecchia, abitavo dove c’è l’Arco alto: la piazzetta di largo Chiurlia, il porto, e lo spiazzale vicino al ristorante “Il pescatore”, dove adesso c’è un grande parcheggio, erano i miei campi. Poi mia madre, appena presi la quinta elementare, mi disse: “Ti sei laureato, adesso vai a lavorare!”, e così a 10 anni inizia a lavorare nel negozio sportivo dell’allenatore Capocasale”.
In quale circostanza è passato al Bari?
“Lo scopritore di talenti, Michele Gravina, mi vide giocare per strada e mi propose di giocare nel Bari. Avevo appena firmato con una società di Bari vecchia, l’Italia Nuova, ma mio zio, Giovanni Chiricallo, andò personalmente a ritirare il mio cartellino, in modo da avere il via libera per il Bari. Così è iniziata la mia trafila. Dal Castello al ‘della Vittoria’, fu un salto rapido ed emozionante: si avverò il mio sogno”.
Un ruolo impegnativo quello del difensore.
“Da ragazzino ho iniziato da attaccante: mi piaceva dribblare e non volevo passare mai la palla. Nelle giovanili ho iniziato da centrocampista, poi un allenatore, Calabrese, mi trasformò in difensore perché ero aggressivo e litigavo con tutti: diventai un marcatore bestiale”.
Chi l’ha portata in prima squadra?
“Dopo qualche convocazione in prima squadra, volevano mandarmi a Martina Franca, in quarta serie, ma mi dissero che non avevo il fisico. Subito dopo, a 19 anni, mister Lamanna mi portò in prima squadra, dopo un torneo con le riserve del Bari: fui l’unico di quel gruppo a essere promosso. Devo tanto al mister argentino Lamanna”.
Ricorda l’esordio in prima squadra?
“In trasferta a Trapani, in serie C. Nello spogliatoio, appena misi la maglia numero 2, andai in bagno, mi guardai allo specchio e mentre piangevo mi dissi: “Se ti fai scappare questa occasione, sei uno stupido”. Feci una grossa prestazione da laterale sinistro”.
Ricorda un episodio particolare?
“Il mercoledì, dopo l’esordio, festeggiai con gli amici con una partita alle 2 di notte sul vialone dello stadio. A un certo punto, arrivò un’auto con a bordo mister Lamanna, il quale mi portò allo stadio dopo essersi arrabbiato. Mi disse: “Da oggi dormirai sempre qui!””.
Qual è l’allenatore a cui è più legato?
“Toneatto, con cui ho vinto due campionati e perso uno spareggio per la A. Mi ruppi tibia e perone a Livorno, e lui disse che senza di me non avremmo vinto il campionato: infatti, perdemmo lo spareggio contro il Catanzaro. È stato anche mio testimone di nozze e voleva che cantassi sempre “Meraviglioso” di Modugno: quella canzone ci ha fatto vincere il campionato di B”.
È anche bravo nel cantare?
“Amo la musica, avevo sempre il giradischi in camera. Quando andai in America per un torneo, in cui ci davano 500 dollari a partita, comprai un centinaio di Lp”.
Cantante preferito?
“Ero innamorato di Rita Pavone: nell’armadietto dello spogliatoio avevo una sua foto, che per un periodo guardavo prima di entrare in campo. Ero anche fan di Gianni Morandi. “Scende la pioggia”, “Cuore”, “Meraviglioso”, le mie canzoni preferite”.
Il suo momento più bello con la maglia del Bari?
“Le due promozioni: dalla C alla B e dalla B alla A. E poi che grande emozione marcare Riva, Pulici, Graziani, Savoldi”.
Qual è stato l’attaccante che le ha dato più problemi?
“In un Fiorentina-Bari ricevetti un pugno da Amarildo. Gli dissi che nella gara di ritorno sarebbe stato meglio per lui giocare in un altro ruolo: infatti, giocò a centrocampo! (ride, ndr). Poi ci abbracciammo”.
In carriera ha giocato anche nel Lecce. Da barese verace, come l’hanno accolta?
“Mi trattarono benissimo. Fecero la squadra dei baresi: io, Carella, Toscano, Loprieno e Lorusso. Vincemmo il campionato di C“.
Che rapporto ha avuto con il presidente De Palo?
“Anche lui fu mio testimone di nozze. Fece nascere mio figlio Valeriano, e al mio matrimonio mi prestò la sua grossa Mercedes. Quando mi sposai, mia moglie aveva 16 anni e mezzo, e, scherzando, mi disse: “Ma tua moglie deve fare la comunione?”“.
Ha avuto un soprannome?
“Ualino. Anche i miei genitori mi chiamavano così”.
Cosa ha fatto con i primi soldi guadagnati?
“I primi soldi li diedi a mia madre: guadagnavo 160mila lire al mese, tutte da banconote da 10mila. All’epoca pagavano in contanti: un giorno entrai nella stanza del presidente, ma non lo vedevo perché era nascosto, dietro la scrivania, da una montagna di 10mila lire. Appena mi pagarono, scappai a casa e coprii tutto il letto con le banconote, per la gioia di mia madre. Il mio primo sfizio, invece, fu una Fiat 500 blu, che pagai 450mila lire in contanti“.
Quali erano le sue caratteristiche?
“Velocità, grinta, anticipo e colpo di testa”.
Ha un rimpianto?
“Non essere andato nel Cagliari di Riva: mister Toneatto bloccò il trasferimento”.
Cosa fa oggi?
“Mi diverto con la mia bici, giocando a calcio a 11 e al mare, nel mio ‘Angolo di paradiso’: sono stato io a dare quel nome a quel posto meraviglioso”.
Davvero?
“In quel posto ci andavo da bambino a tuffarmi, ma era diverso. Una ventina d‘anni fa, ci sono ritornato e ho incontrato alcuni amici: era chiamato “la diga”, ma gli dissi subito di intitolarlo “L’angolo del paradiso”. In memoria di questo, c’è una scritta con il nome del posto e sotto le mie iniziali. È bellissimo”.
Come descriverebbe il suo calcio?
“Il mio calcio si giocava davvero col cuore”.
Qual è il segreto della giovinezza?
“Incazzarsi: quando lo fai, significa che sei davvero vivo”.