Società

Avetrana – Qui non è Hollywood, il regista Pippo Mezzapesa: «Abbiamo esplorato quanto sia difficile comprendere la complessità del male»

Sai che il male è banale, ma è comprenderlo che è complesso
Se ci affascina tutti, è perché tutti lo abbiamo dentro
Ogni caso irrisolto, poi, è soltanto specchio del nostro
Sotto ogni letto c’è un mostro, devi andarci d’accordo

Sono le parole del brano scritto da Marracash per la colonna sonora di Avetrana – Qui non è Hollywood, la serie in quattro episodi, che sarà disponibile dal 25 ottobre su Disney+, diretta da Pippo Mezzapesa e presentata in anteprima alla diciannovesima edizione della Festa del Cinema di Roma. Quando Marracash inizia a cantare siamo ai titoli di coda e la sensazione che arriva è difficile da descrivere: è un misto di rabbia, drammaticità, nero. Perché è questo che abbiamo ancora dentro dell’omicidio di Sarah Scazzi, anche se sono trascorsi quattordici anni da quel 26 agosto 2010 in cui una ragazzina di appena quindici anni che era uscita dalla sua casa ad Avetrana per andare al mare con sua cugina, è sparita. Un arco di tempo grande ma che non ha scalfito la memoria di quei giorni, ne sono serviti più di trenta scanditi da appelli e dirette televisive per arrivare al 29 settembre e alla confessione di Michele Misseri, lo zio di Sarah, nella serie interpretato dal bravissimo Paolo De Vita.

Federica Pala nei panni di Sarah Scazzi e Giulia Perulli interprete di Sabrina Misseri

Federica Pala (Sarah Scazzi), Giulia Perulli (Sabrina Misseri)

«Volevamo esplorare la complessità del male», racconta Pippo Mezzapesa, regista di Ti mangio il cuore, vincitore di due Nastri d’Argento e di un David di Donatello. «Il rischio era di approcciarsi in modo morboso e voyeristico a questa storia ma l’intento invece è stato quello di andare oltre i personaggi che si sono creati e che inevitabilmente ognuno ha creato su se stresso, per andare anche a esplorarne le fragilità».

Per farlo, durante la lavorazione della serie tv, gli autori e la produzione (Groenlandia) sono rimasti in dialogo costante con la famiglia di Sarah Scazzi. «Il pericolo era di avere anche un coinvolgimento emotivo troppo forte che minasse la libertà di noi narratori», continua Mezzapesa. «Abbiamo raccontato dei fatti emersi dalla verità giudiziaria, da tre sentenze e ci siamo limitati a quello. Non abbiamo in alcun modo pensato di aprire altre strade, non siamo giudici, non siamo avvocati e non siamo giornalisti d’inchiesta. A noi interessava raccontare una storia per quello che è emerso ed esplorarne cause e conseguenze».


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