Audemars Piguet, 150 anni di tempo ritrovato
C’è un tempo che si misura in secondi, minuti, complicazioni meccaniche. E c’è un tempo che si tramanda: fatto di visioni, scelte coraggiose, radici che resistono ai secoli. Nel cuore della Vallée de Joux, nel 1875, due giovani orologiai diedero vita a quella che sarebbe diventata una delle manifatture più prestigiose al mondo: Audemars Piguet. Oggi, a 150 anni da quella fondazione, il cuore del brand è sempre lì in una piccola valle svizzera dove il tempo, però, non si è fermato.
Ne parliamo con Andrea Cardillo, Country General Manager per l’Italia, da vent’anni in azienda che ci parla della storia del brand e delle sfide future.
Quest’anno Audemars Piguet celebra i suoi 150 anni di storia. Quali sono, secondo lei, le tappe più significative del brand?
«Un secolo e mezzo è difficile da riassumere, ma ci provo. Tutto comincia nel 1875. Siamo nella Vallée de Joux, in Svizzera, sopra le montagne ginevrine. C’è un motivo preciso per cui tutto nasce lì. La zona fu scelta da minoranze religiose, i calvinisti nello specifico, in fuga dalla Francia dopo l’annullamento dell’editto di Nantes È una zona molto particolare, con inverni rigidi che costringevano a stare in casa, ma ricca di ferro nel sottosuolo: e questo ha favorito una forte specializzazione nella lavorazione della meccanica e sviluppato straordinarie doti ingegneristiche. La valle diventò così la culla dell’alta orologeria mondiale»
E li nasce il brand?
«Dopo un secolo di affinamento tecnico, Jules Audemars e Edward Piguet si incontrano e fondano la manifattura. Audemars era più focalizzato sulla produzione e sulla tecnica, Piguet era più commerciale e sul controllo qualità. È una storia affascinante che ha radici non solo geografiche, ma anche storiche»
Quali valori sono rimasti immutati dalla fondazione a oggi?
«Sicuramente il valore della famiglia. Le famiglie Audemars e Piguet rappresentano ancora la maggioranza nel board dell’azienda. E poi la tradizione: siamo ancora a Le Brassus, dove tutto è nato. Avremmo potuto spostarci a Ginevra, come hanno fatto in molti, ma i fondatori ci tengono a mantenere questo legame con le origini».
Come si riesce a coniugare tradizione e innovazione, senza perdere l’identità?
«È la sfida di tutti i grandi brand, nell’orologeria come nella moda. Bisogna coniugare il rispetto della tradizione, che non deve diventare staticità, senza andare nell’innovazione estrema che snatura l’essenza del brand. Bisogna trovare un punto d’equilibrio: rielaborare lo status raggiunto, senza mai accontentarsi. Faccio un esempio. Nel 2018, uno dei nostri best seller era il calendario perpetuo Royal Oak. Potevamo semplicemente continuare a produrlo così com’era, visto che la domanda era molto forte. E invece, il nostro reparto Ricerca e Sviluppo ha deciso di spingersi oltre, presentando il calendario perpetuo più sottile al mondo: meno di tre millimetri per un orologio complicato. Un’impresa ingegneristica unica. Ecco il punto: innovare senza rinnegare ciò che si è. Non fermarsi mai».
Quali sono i modelli iconici che, secondo lei, rappresentano meglio l’anima del brand?
«Il Royal Oak è senz’altro il nostro modello più riconoscibile. Il suo lancio, nel 1972, ha segnato una rivoluzione nell’alta orologeria: per materiali, design, dimensioni. Non era tondo, era ottagonale, con un bracciale integrato d’acciaio. Un orologio completamente fuori dagli schemi dell’epoca, che prevedevano solo orologi in metallo prezioso e forme classiche. E a cinquant’anni è ancora un modello super moderno e che funziona. È stata anche la prima volta, in cent’anni di storia, che Audemars Piguet ha prodotto mille esemplari in serie: un grande rischio, che è diventato uno straordinario successo. Questa audacia, questo coraggio e questa spinta verso l’innovazione sono alla base dei nostri valori».
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