Arjola Trimi: Non sono la mia patologia, ma molto di più: donna, mamma e atleta
Se hai un figlio che si chiama Dipendra – in sanscrito significa “signore della luce” – non puoi che essere luce. Arjola Trimi, nuotatrice paralimpica con una cinquantina di medaglie fra Mondiali, Giochi ed Europei, è luce tersa e avvolgente, con quei suoi occhi così mare tranquillo e i suoi pensieri così per sempre. A Singapore, ha vinto l’oro nei 200 stile libero, categoria S2, avendo la meglio su Teresa Perales negli ultimi 25 metri. «Ho tenuto un ritmo costante, mentre la mia avversaria è calata tanto in fondo», ricorda in questo pomeriggio, sulla terrazza della sede del Sole 24 Ore, fra montagne e luce. Sembra facile, ma non è così, soprattutto perché Arjola da quattro anni era lontana dalle gare: «L’oro di Singapore è frutto di tanta fatica e allenamenti, svolti spesso in giorni in cui il corpo urla dal dolore, ma mica puoi aspettare l’assetto perfetto, e il ricordo più bello è la premiazione: ero sul podio, con la medaglia al collo e ho mandato un bacio a mio marito Cristiano e a mio figlio Dipendra che erano in tribuna (come dimostra la foto scattata da Augusto Bizzi, ndr): la mia gioia è la loro e volevo che Dipendra vedesse che i sacrifici della mamma e di tutti si erano concretizzati in quell’oro».
Arjola, nata a Tirana nel 1987, arriva in Italia a due anni: «Mamma e papà sono ingegneri, avevano un lavoro che li gratificava ma hanno lasciato l’Albania perché il clima era turbolento. Sono arrivati in Lombardia e hanno ricominciato in un’impresa di pulizia. Erano identificati per quel che facevano e non per quel che erano. Stessa sensazione che provo io da persona con disabilità: le persone ti identificano per quello che hai. Io ho una patologia e, ai loro occhi, sono la mia patologia. Ma io sono tanto altro, la patologia è una parte di me. Siamo tutti persone e ognuno è tutto in potenza. La disabilità toglie possibilità, sta a noi trovare vie diverse per vivere comunque appieno, cioè fare ciò che si desidera ed esprimere il talento che ci batte dentro». E Arjola l’ha trovato in acqua: «È la mia comfort zone dove sono libera di essere me stessa al meglio». E l’acqua è stata l’ambiente in cui ripartire quando la malattia si è affacciata: «Avevo 12 anni, dopo una brutta caduta a basket e tanti interventi una mattina non sento più la gamba, e poi neppure l’altra e il braccio destro. In un paio d’anni non ero più io. Solo dopo tanto è stata individuata la patologia: la tetraparesi spastica degenerativa. Ma, se non comprendi, non elabori». La rinascita, lunga e accompagnata da una famiglia speciale, è partita dal basket in carrozzina: «Ero molto più della mia malattia: avere consapevolezza cambia la prospettiva». La spasticità prende il sopravvento e Arjola si ritrova a gestire un dolore lancinante e senza posa ma «in acqua mi sono ritrovata. Se hai talento, e io sono come un sughero che galleggia, lo devi coltivare, è una responsabilità. Lo sport è sincero e non lascia alibi: lavori, fatichi, raccogli». Come è successo a lei, partendo dalla Polha Varese, società che è eccellenza a livello mondiale nel dare chance sportive ad atleti ed atlete con disabilità. Bisognerebbe clonare la Polha, la sua presidente Daniela Colonna-Preti, i suoi tecnici e i suoi volontari e invece siamo nella nostra Italia: «Tanti i passi avanti fatti – è l’analisi di Arjola – ma il concetto di disabilità va incorporato nel profondo: ci riguarda tutti da vicino, soprattutto in un Paese sempre più anziano, e il benessere delle persone passa dalle strutture, dalle possibilità offerte per vivere al meglio ogni vita». Contano i fatti, non le percezioni. Come ci insegna Dipendra, 8 anni, quando gli chiedono cosa pensa della sua mamma in carrozzina: «che posso sedermi sulle sue gambe ed essere felice». Impariamo a guardare il mondo con gli occhi di Dipendra.
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