Archivio Futuro :: Le interviste di OndaRock
Archivio Futuro è un paradosso funzionale, un progetto in cui si sperimenta la dualità tra l’acustico e l’elettronico, la ricerca di combinazioni sonore inaspettate, la musica organica e quella programmata. Incontriamo il collettivo composto da Lorenzo BITW, Danilo Menna e Vittorio Gervasi, al suo secondo Ep, “Rituale moderno”, prodotto da Tempesta Dischi. La risultante? Un viaggio ondivago che conduce in una zona d’ombra, dove i confini tra jam session e produzione elettronica si rendono ineffabili.
Siete ormai consolidati e al secondo Ep, come nasce la vostra unione?Nasciamo da un incontro casuale fra due membri del collettivo nel 2021, in piena pandemia, quando era molto complicato e difficile avere delle prospettive su quello che sarebbe successo in pochi mesi o anni. Spinti dalla voglia di sperimentare e di cercare nuove forme espressive, abbiamo iniziato a vederci e a registrare le prime demo che poi hanno portato all’album di debutto intitolato appunto “Archivio Futuro”. Da lì in poi abbiamo continuato a produrre, suonare live, sperimentare e aggiungere altri musicisti, ampliando il collettivo. Oltre all’aspetto musicale, abbiamo infatti collaborato con grafici, fotografi, costumisti, un processo che è in continua evoluzione.
Iniziamo dall’ascolto dell’album. Layalina introduce “Mi trasformo”, un brano onirico, che affronta delle tematiche sociali molto attuali, quasi un manifesto. Da dove viene il testo del parlato? E perché avete scelto il tema della trasformazione fisica e mentale all’interno della società?
Il testo è stato scritto da un membro della nostra band e poi interpretato in studio da Alessandra Diodati, una bravissima cantante jazz romana. L’idea alla base era più un elenco che un manifesto vero e proprio, anche se poi si è trasformata l’idea stessa del brano mentre lo creavamo. Il mantra, la ripetizione della frase “Mi trasformo”, ha fatto da apripista, per poi affrontare tematiche sociali e personali, ma con l’intento di comunicare qualcosa e far sì che rimanesse nella testa dell’ascoltatore. Di base è quello che ci siamo detti sin dall’inizio, ovvero con la nostra musica vogliamo lanciare dei messaggi: se nel primo album era “Occuparsi dei sogni”, frase presa in prestito da Nietzsche, qui è “Mi trasformo”.
Parallelamente, gli stessi brani, si trasformano. Ad esempio, in “Jungle” ascoltiamo il pezzo iniziare in un mondo jazz sperimentale, trasformarsi poi in elettronica e in una ambient più ritmata. Il brano è poi alternato ancora a ulteriori ricerche introspettive come “Cave”. L’Ep sembra concepito come un viaggio progressivo, sia sonoro che onirico: è stato pensato così? O avete provato in studio e questo è ciò che ne è nato?
Abbiamo background assai diversi ma che ci stimolano a vicenda, lo stesso vale per i nostri ascolti. Questa cosa ci permette di mischiare un po’ le carte. infatti non c’è un genere che ci incaselli perfettamente e nemmeno lo cerchiamo. Facciamo sì musica elettronica, ma con tante influenze. Abbiamo cercato di scrivere avendo però in mente un suono che unisse i brani, un “fil rouge”, e pensiamo di esserci riusciti. “Rituale moderno” è infatti un’opera compatta, 24 minuti di durata, ma molto densi di sfumature. L’intento è stato quello di far sì che ogni brano avesse la propria identità, e una volta ultimato il tutto, si è ragionato molto su che ordine volessimo dargli in fase di ascolto, al fine di restituire questo effetto di viaggio un po’ sonoro e onirico di cui parli, e che ci fa molto piacere tu abbia notato. Quindi è nato in fase di scrittura, ma poi lo abbiamo valorizzato nelle fasi finali di realizzazione dell’Ep.
Come lavorate solitamente? Come create i vostri pezzi?
Solitamente uno di noi porta una demo prodotta con Ableton, e da lì si parte per realizzare un brano. Abbiamo trovato una nostra quadra, che ci ha permesso di lavorare a sei mani praticamente su tutti i brani. Non abbiamo dei ruoli definiti, tutti si occupano di tutto: suonare, produrre, arrangiare. Il nucleo di ogni brano viene quindi sviluppato, con ognuno di noi che ha aggiunto, modificato, suonato qualcosa che in origine non c’era. Seguiamo un po’ il flusso, sempre però rispettando l’anima originale di quello che uno porta. In questo senso, il lavoro di squadra ti permette proprio di valorizzare, perché magari a uno non sarebbe mai venuto in mente di aggiungere o togliere un qualcosa, mentre le idee degli altri portano poi a far prendere una piega originariamente inaspettata. Il bello sta nel mettersi in gioco senza gelosie. In particolare poi, in questo Ep, abbiamo voluto sperimentare con la voce, mentre prima i nostri brani erano completamente strumentali. Cosa che soprattutto nel caso di “Cave”, con il contributo di Mauro Remiddi alla voce, ha dato una vera e propria svolta.
Nell’album avete inserito la “poetronica”, ovvero la fusione tra poesia e tecnologia sotto forma sonora, avete integrato il parlato e spinto la parte sperimentale come in una jam session fuori controllo. Da dove nasce l’idea?
Sentivamo di voler aggiungere la voce in questo Ep. Non volevamo usare dei campioni, ma piuttosto cercare delle personalità artistiche a noi affini. Alessandra Diodati, che è la voce sia in “Mi trasformo” che in “Rituale moderno”, ci ha seguiti in questa follia. La sembianza di jam session fuori controllo è avvenuta però con un lavoro di post-produzione e mixing. Quando abbiamo registrato la voce, i brani erano infatti leggermente diversi. Ci fa piacere che tu abbia notato un approccio live in questo, cosa che ricerchiamo anche quando produciamo, e speriamo che il pubblico abbia modo di vederci dal vivo, perché a nostro modesto parere merita ed è quasi una performance più che un concerto.
Ultima domanda: Un disco che ascoltate in questo periodo e che suggerireste?
“Cenizas” di Nicolas Jaar o “Endlessness” di Nala Sinephro.