Approfondimenti – Niente requiem per il rock
Il business della musica indipendente contemporanea si basa su una finzione. Che esista un numero esiguo di ambiti ed artisti di valore al di fuori del panorama mainstream, e che questi coincidano con i nomi ricorrenti che le testate tengono d’occhio a uso e consumo dei loro lettori.
Qualche filone è rappresentato da parecchi nomi — si pensi all’eterno proliferare di nuovi imprescindibili tassidermisti post‑post‑punk — altri solo da pochi o pochissimi: il prog‑rock è Steven Wilson e i suoi Porcupine Tree, il folk celtico sono i Lankum, il garage rock è Jack White, se proprio proprio Ty Segall. Il vecchio rock, poi, appare tenuto in vita da personaggi storici presentati come vati e accolti anche dal pubblico come custodi del sacro fuoco. Il resto, lo sterminio della produzione discografica mondiale, è considerato rumore di fondo.
Ma uno sguardo più attento e meno pregiudizievole svela un quadro molto diverso. Molto più incontrollabile, molto più affascinante. L’orizzonte pullula di musica creativamente stimolante: correnti sotterranee, revival inattesi e approcci imprevedibili che si sviluppano lontano dai flussi informativi principali che alimentano la cultura indipendente e alternativa contemporanea. E senza una reale possibilità non tanto di imporsi nelle classifiche, ma — in un panorama saturo e orientato verso i soliti noti — anche solamente di farsi scoprire dai molti potenziali interessati. Che hanno quindi una sfida da cogliere come un’opportunità: andare personalmente in cerca di questo universo nascosto, esplorarlo con orecchie curiose, in base alle proprie inclinazioni scoprirne la ricchezza e — perché no — anche provare a diffonderla.
Il fascino discreto della miopia
Dischi e artisti più in vista nel panorama alternativo contemporaneo non spiccano perché più riusciti, rappresentativi o stimolanti. E nemmeno quelli perché più «trasversali», cioè capaci – almeno in teoria – di raggiungere pubblici diversi, oltre le nicchie di partenza. Al contrario: a guadagnarsi una visibilità maggiore sono spesso le espressioni di quegli ambiti i cui codici sono talmente familiari al pubblico di riferimento da apparirgli come universali. Paradossalmente, sono proprio i linguaggi più statici, quelli che si muovono entro coordinate consolidate, a essere percepiti come il cuore pulsante della scena indipendente. La loro riconoscibilità li rende più facilmente spendibili: da chi produce contenuti, da chi li promuove, da chi li consuma. E proprio questa facilità di incasellamento, anziché essere un limite, diventa il loro punto di forza comunicativa: territori ristretti e poco fertili guadagnano così una visibilità tale da eclissare completamente quella della pluralità degli altri filoni, creando l’illusione che si tratti degli unici in cui stia succedendo qualcosa. Ciò che devia da modelli già noti e prova non ha chance di trovare spazio: linguaggi più fluidi, ibridi, difficili da racchiudere in un’estetica precisa finiscono ai margini del discorso — ammesso che il discorso provi a includerli in qualche modo.
Il successo del post-post-punk o Brexitcore è con ogni probabilità l’esempio più emblematico di questo fenomeno. Da anni il filone continua a godere di un’attenzione costante, riaffermando strutture e immaginari che appartengono al patrimonio genetico dell’indie e dell’alternative rock. Per molti ascoltatori — e spesso anche per la critica — si è consolidata la sensazione che fuori da quel perimetro ci sia ben poco a cui aggrapparsi, come se rappresentasse l’ultimo baluardo prima della definitiva scomparsa del rock, après moi le déluge. Band come i Fontaines D.C., in questo contesto, sono diventate una presenza cardine: la loro proposta incarna con forza alcuni valori storicamente associati alla cultura indie, come l’autenticità espressiva, il rifiuto dell’edulcorazione, il disagio esistenziale, e un’etica produttiva autonoma. È comprensibile che un’identità musicale così connotata e familiare diventi un punto di riferimento emotivo, una sorta di coperta di Linus per chi si è formato all’interno di quel paradigma.
Similmente, da Nick Cave ai Radiohead/Smile, non manca chi — tra gli artisti storici — continua a pubblicare dischi ritenuti di ottimo livello. Ma le loro opere più recenti, raramente dirompenti come quelle che li hanno consacrati, vengono sempre più spesso accolte con un entusiasmo che ha più a che fare con il bagaglio condiviso dagli appassionati che con la loro effettiva capacità di spostare l’asse del discorso musicale. Sono proposte di fatto predigerite per platee già smaniose di apprezzarle, enormemente più ampie rispetto a quelle di artisti meno navigati, più di frontiera. Il fatto che vengano regolarmente salutati come “irraggiungibili” testimonia quanto lo scenario culturale sia legato a figure riconoscibili, rassicuranti, investite del compito di custodire un’eredità.
Come nel caso degli adepti post-post-punk, la percepita centralità artistica di questi artisti è insomma, più che il frutto di un’analisi accurata del panorama, una risposta al bisogno diffuso di riferimenti stabili in una fase di estrema dispersione e moltiplicazione delle proposte. Una reazione comprensibile, che porta tuttavia a ignorare quanto accade ai margini di quella comfort zone, dove correnti creative meno codificate sperimentano liberamente e, proprio per questo, restano invisibili ai radar dei media e degli appassionati.
L’era della sovrabbondanza
Non è questione di colpe. I meccanismi che guidano oggi l’attenzione musicale hanno a che fare con il surplus dell’offerta, con la saturazione dei canali e con la necessità, sempre più pressante, di orientarsi dentro un panorama in continua espansione quantitativa. Sovrabbondanza produttiva e rendimenti decrescenti generano un circolo vizioso: i contenuti si moltiplicano, ma le risorse cognitive restano le stesse, e l’ascolto si frammenta fino a rendere quasi impossibile il riconoscimento condiviso. La risposta prevalente a questa complessità è la semplificazione: in un processo progressivo di adattamento, per farsi strada nella boscaglia si sfronda fino al punto da vedere soltanto una distesa brulla. E si finisce per scambiarla per l’intero orizzonte.
Questo vale per chi promuove, per chi ascolta, ma anche per chi racconta. Pure una testata come Ondarock — tra le più attive al mondo per numero di recensioni — finisce per esserne coinvolta, non per mancanza di apertura o curiosità, ma per effetto di una dinamica più grande, sistemica. Il tabellone delle recensioni pubblicate nel 2025 è rivelatore: di centinaia di dischi trattati, pochissimi raccolgono più di una valutazione dai componenti della redazione. E non perché non siano validi — anzi, in molti casi sono stati recensiti con entusiasmo e con la volontà esplicita di uscire dal prevedibile. È di nuovo un paradosso frutto dell’abbondanza: sebbene ogni redattore mantenga una visione onnivora, la tendenza ad approfondire scene diverse porta inevitabilmente a un allontanamento dei rispettivi ambiti di interesse. Questo arricchisce la copertura complessiva della testata, ma riduce via via le intersezioni. Manco a dirlo, le sovrapposizioni finiscono per riguardare in gran parte proprio i nomi già noti e al centro del dibattito, perché intercettati da circuiti dallo sguardo meno capillare. Così, anche le uscite ritenute più stimolanti finiscono per alimentare il rumore di fondo.
I social amplificano ulteriormente questo squilibrio. Un contenuto dedicato a un nome poco noto, se riceve pochi clic nei primi minuti dalla pubblicazione, viene subito penalizzato dagli algoritmi. Non arriva ai potenziali interessati, non circola, si spegne. Recentemente Ondarock ha scelto di condensare più recensioni in un unico post, per cercare di salvare almeno in parte la visibilità complessiva, ma gli esiti sono spesso spesso deludenti. Anche i tentativi più convinti di ridistribuire l’attenzione finiscono così per naufragare. Il gioco è truccato.
Il tramonto della monocultura
Fin dalla nascita della cultura pop, l’immaginario collettivo è stato plasmato dall’idea di un centro culturale ben definito, un nucleo di riferimenti condivisi capaci di unificare il discorso e definire i contorni di un’epoca. Che si trattasse di scene musicali, fenomeni cinematografici o trend letterari, esisteva la credenza in flussi di aggregazione culturale capaci di parlare a una platea trasversale e rappresentare in modo ecumenico lo spirito del tempo. Oggi, questa nozione di una “monocultura” sembra appartenere a un’era tramontata. Il baricentro si è disperso, il flusso principale si è ramificato in una miriade di rivoli specifici, ognuno con le proprie dinamiche e i propri pubblici. Da tempo affiancata da correnti underground e fenomeni di nicchia, la presenza di un nocciolo duro di riferimenti culturali universalmente condivisi sta infine lasciando il passo a uno scenario dove la frammentazione degli orizzonti diventa una caratteristica costitutiva anche per la popular culture.
Il tramonto della monocultura è stato colto e anticipato da più voci già nei primi anni Duemila. Chris Anderson, nel suo “La coda lunga” (2006), individuava nella digitalizzazione una forza in grado di spostare l’attenzione dai prodotti di massa a una molteplicità di offerte di nicchia. Ne derivava un nuovo paradigma: la cultura della varietà prendeva il posto della cultura unitaria, modificando la percezione e la struttura stessa della produzione e del consumo culturale. Cinque anni più tardi, l’articolo “Why I Miss The Monoculture” firmato da Touré sulla rivista online Salon avviava di fatto il dibattito esprimendo un sentimento di nostalgia verso quella cultura pop capace di generare momenti di aggregazione collettiva. Nel 2019, in un pezzo per il Guardian, il critico Simon Reynolds aggiornava il quadro analizzando come lo streaming avesse ulteriormente frantumato l’ascolto musicale, diluendo la possibilità di esperienze realmente condivise.
Il quadro più nitido e aggiornato di questa trasformazione arriva però dalla ricerca condotta da MIDiA nel 2024. Il report “State of the Independent Music Economy: Fragmentation AND Consolidation” descrive un sistema in cui convivono dinamiche apparentemente opposte. Da un lato lo streaming e i social media hanno abbattuto le barriere di accesso, favorendo la crescita di ecosistemi indipendenti in tutto il mondo; dall’altro, le principali etichette e piattaforme rafforzano il proprio potere accorpando realtà più piccole. Il risultato è un equilibrio instabile tra disgregazione e concentrazione: mentre il pubblico si disperde in micro-scene, le strutture dominanti si consolidano, mantenendo il controllo sui flussi principali.
Le etichette non-major sono sempre più dipendenti dallo streaming — spesso la loro unica fonte di reddito consistente — ma faticano sia a far emergere i propri artisti (87%) sia a mantenere vivo l’interesse del pubblico (78%). Spotify da solo costituisce oltre metà delle loro entrate, eppure il modello attuale — royalties ridotte, attenzione volatile, soglie di accesso penalizzanti — appare insostenibile. Il 74% auspica l’arrivo di un nuovo modello: non solo come possibilità, ma come necessità.
Eppure, nonostante le difficoltà, la quota di mercato dei non-major cresce, segno che il sistema è meno centralizzato che in passato. L’accesso al pubblico e ai mercati internazionali è oggi più aperto, ma resta fortemente mediato da piattaforme e meccanismi di visibilità che tendono a premiare l’aggregazione. La coesistenza di micro-scene e concentrazioni di potere non è un paradosso: è la realtà strutturale del presente culturale. Un presente che non ha più un centro da raccontare, ma tanti punti d’emersione da tenere insieme con sguardo plurale.
Faglie sommerse
Ma quali sarebbero, allora, questi ambiti ancora vitali e potenzialmente capaci di intercettare l’interesse di ascoltatori con un background variegato? In che direzioni si sviluppano oggi le traiettorie più vive e trasversali, escluse dal racconto dominante ma non per questo marginali nella propria dimensione creativa?
Anche restando all’interno del solo campo rock, qualunque tentativo di esaustività sarebbe travolto dalla quantità e dalla diversità delle possibili direzioni da esplorare. Le rotte proposte sono dunque solo alcune tra le molte percorribili: sguardi indicativi per chi, animato da curiosità, cerchi suoni capaci di sorprendere, stimolare, e aprire nuove connessioni.
Già il panorama revival è realtà un fenomeno assai più ricco e diversificato di quanto si possa intuire guardando solo quei pochi filoni ritenuti “cool” da critica e pubblico. La riattualizzazione di correnti storiche non ha raggiunto livelli espressivi rilevanti solo nelle reiterazioni del post-punk, ma investe ormai l’intera storia del pop, diventando un accessibile ma spesso ingegnoso prêt-à-porter culturale che mescola nostalgia, citazionismo e invenzione. Dallo yacht rock allo shoegaze, dalla new age al pop-punk anni Novanta, quasi ogni epoca viene oggi riletta in chiave contemporanea, dando vita a proposte capaci talvolta di catalizzare un pubblico trasversale, come nel caso di Lemon Twigs o Greta Van Fleet.
Accanto a queste riscritture — spesso calligrafiche nelle intenzioni, ma non per questo prive di classe e personalità — si inseriscono poi traiettorie più sfuggenti, e forse proprio per questo creativamente stimolanti: il ritorno di fiamma dello heartland rock in chiave aggiornata (War On Drugs, Bleachers, Sam Fender), la diffusione sempre più pervasiva del bedroom rock, che con Girl In Red, Soccer Mommy, Beabadoobee, Yot Club o Joy Again ha raggiunto traguardi di ascolto davvero considerevoli senza rinunciare all’impianto chitarristico, al carattere casalingo delle produzioni e a una scrittura introspettiva e accessibile. Anche la nuova onda slacker rock ha i suoi eroi: MJ Lenderman, i Car Seat Headrest (che grazie all’imprevedibilità delle loro soluzioni si sono guadagnati status di culto significativo, anche se ancora sottotraccia per molti), ma anche il progetto coreano Asian Glow, con il suo stile obliquo e la prossimità con la “quinta onda” emo. Un segnale poco in vista, ma inequivocabile, di quanto la permeabilità alle anomalie sia un tratto distintivo della scena.
Lasciandosi alle spalle le correnti accusabili — a ragione o a torto — di riproposizione del già noto, proprio l’ambito post-emo è in questi anni l’epicentro di onde che fanno dell’eclettismo il proprio motore principale, spingendo il rock in territori sincretici come mai in tempi recenti. Lo spettro espressivo del filone si è votato all’ibridazione estrema, intrecciando elementi stilisticamente eterogenei in una chiave spesso pressoché progressiva: a risultarne è una sorprendente varietà di direzioni e stili, come dimostrano gruppi come Glass Beach, Really From, Origami Angel, Adjy, Topiary Creatures.
In un campo ancora meno esplorato si colloca il rock xenarmonico, ambito del tutto inedito che unisce microtonalità, poliritmie e sonorità ispide: lo praticano con coerenza band come Mercury Tree e Horse Lords, anche se i più in vista sono probabilmente i King Gizzard & The Lizard Wizard, che adottano chitarre microtonoali in alcuni dei loro dischi. Questa direzione, che mira ad ampliare in modo radicale lo spettro armonico, costituisce un terreno feritile anche per formazioni di origini africane e mediorientali, capaci di coniugare sperimentazione, radici e impatto sonoro: i turchi Altın Gün, Aylar, Gaye Su Akyol e Lalalar, gli israeliani El Khat e Şatellites, i marocchini Bab L’Buz, i francesi Al-Qasar.
A questi si affiancano artisti che flirtano con l’hyperpop senza rinnegare la matrice rock: Jane Remover, Underscores, 100 gecs. Figure spesso non binarie anche nella vita, capaci di far coesistere caos e progetto, destrutturazione e immediatezza, esplorando estetiche ibride che sfuggono ai riferimenti abituali. Un’altra faglia in movimento, su linee per certi versi parallele, è quella che attraversa le nuove declinazioni di chillwave e hypnagogic pop, territori per loro natura onnivori, centrifughi, aperti all’eccesso come al dettaglio. George Clanton, Magdalena Bay e Clarence Clarity ne sono interpreti singolari e inafferrabili, capaci di mettere insieme saturazione sensoriale e cura melodica. E in questo paesaggio liquido può trovare spazio perfino un guitar hero atipico come Mk.gee, autore di un suono “impossibile” che ha mandato in subbuglio forum e canali YouTube, tra reverse engineering e tentativi di emulazione tecnologica. Anche questo è un indizio: qualcosa si muove, pure quando buona parte degli sguardi è concentrata altrove.
La trappola dell’accessibilità
Nonostante le difficoltà che accompagnano la frammentazione dell’ascolto e la saturazione dello spazio digitale, il presente offre agli artisti opportunità inedite. Mai come oggi è stato così semplice realizzare e distribuire musica di qualità. Similmente, l’abbattimento dei costi tecnologici ha reso possibile anche per chi non dispone di grandi mezzi registrare e pubblicare dischi con una qualità tecnica che è spesso confrontabile a quella delle grandi produzioni. Se l’impiego di orchestre sinfoniche o di turnisti e produttori di grande fama resta fuori dalla portata di un musicista che operi in proprio, la facilità di connessione e la diffusione di strumenti digitali (Daw e rispettivi plugin, interfacce midi, ecc.) ha enormemente potenziato la possibilità di collaborare a distanza, disporre di sterminate banche di suoni ed effetti, e assemblare le creazioni sul proprio Pc senza il timore di un suono amatoriale.
Parallelamente, l’ascolto stesso è diventato straordinariamente accessibile: l’abbondanza di piattaforme gratuite o a basso costo, unite alla disponibilità pressoché istantanea di ogni uscita su scala globale, ha reso potenzialmente raggiungibile qualunque angolo della produzione musicale contemporanea. Per la prima volta, è materialmente possibile accedere con facilità alle centinaia di mercati esterni all’anglosfera e ai propri circuiti nazionali: per conoscere le sonorità di altri paesi, non si è più vincolati a un novero selezionato (e spesso edulcorato) di artisti ed etichette che pubblicano per la fruizione occidentale. Oggi la curiosità può condurre direttamente alle scene locali di ogni continente, bypassando l’omologazione culturale indotta da filtri e narrazioni esterne.
Questa accessibilità vale anche per la formazione: chiunque, con una connessione a internet e un po’ di pazienza, può imparare a suonare, produrre, arrangiare. Le risorse a disposizione – tutorial, videolezioni, trascrizioni, community – non hanno precedenti. La proliferazione di strumentisti preparati è tra i fenomeni meno raccontati del mondo musicale attuale, ma è notevole come oggi non sia raro imbattersi in artisti che, pur fuori dai circuiti mainstream, vantano una perizia tecnica e una consapevolezza compositiva che difficilmente si riscontravano tra gli esordienti di vent’anni fa.
Anche il finanziamento diretto è diventato una via concreta: piattaforme come Kickstarter, IndieGoGo o Patreon consentono ai musicisti di sostenere i propri progetti grazie al supporto diretto dei fan, senza mediazioni né compromessi. Sono sempre più i casi di artisti che riescono a operare in sostanziale autonomia, pubblicando dischi o iniziando tournée senza passare da etichette strutturate o agenti professionali: pur con tutti i suoi limiti, l’ecosistema attuale apre per i musicisti possibilità di autogestione che prima erano decisamente più difficoltose.
Non è la produzione, insomma, il vero ostacolo. Né la distribuzione. A restare difficilissima è la parte centrale del processo: raggiungere un pubblico. Farsi scoprire in mezzo alla marea di uscite, ottenere ascolti che vadano oltre la cerchia immediata, costruire un seguito che permetta continuità. Il problema insomma non è più tanto «fare musica», quanto farla circolare. In un ecosistema così dispersivo, dove l’attenzione è una risorsa sempre più rara e contesa, è proprio la visibilità a essere diventata il nuovo privilegio. E per ottenerla, gli strumenti a disposizione non bastano: chi parte da una posizione avvantaggiata ha enormemente più chance di successo di chi si trova fin da principio a rincorrere.
Tra l’algoritmo e l’altrove
Munimuni, .Feast, Hindia, Yorushika, Inabakumori, Eve, Ado, Zutomayo, Omnipotent Youth Society, Adamlar, Carson Coma, Ziferblat: quanto sono familiari questi nomi? Si tratta di artisti che non solo hanno realizzato negli ultimi anni dischi rock di spiccata originalità, ma che hanno anche ottenuto riscontri significativi nei rispettivi mercati nazionali. Con il loro indie-folk celestiale i filippini Munimuni viaggiano sul milione e ottocentomila ascoltatori mensili su Spotify. Il successo degli indonesiani .Feast si base invece su una sintesi eclettica di rock alternativo, stoner, nu rave e post-britpop, e coinvolge oggi più di nove milioni di ascoltatori mensili (prevalentemente nel loro paese d’origine e in Malesia). La carriera solistica del loro cantante, Hindia, li ha addirittura superati con dodici milioni di ascoltatori mensili (per fare un paragone: sono più di quelli dei Doors, dei Clash, degli Iron Maiden – oppure di Ghost, Young The Giant e Big Thief se si vuole stare sui nomi attuali di successo in campo rock). Yorushika, Inabakumori, Eve, Ado e Zutomayo sono esponenti della scena yakousei giapponese: un fenomeno poco noto a Occidente, che però su Spotify si traduce in un pubblico mensile tra i 900mila ascoltatori degli Inabakumori e gli oltre sei milioni degli Ado. Gli artisti di questo filone, a cavallo fra j-pop e j-rock e legato a doppio filo a estetiche anime, combinano un approccio bubblegum ultramelodico con scatti funk e chitarre affilate, strettamente imparentate al suono math/emo del precedente Shimokita-kei (Ringo Sheena, Ling Tosite Sigure, Tricot, Polkadot Stingray).
Gli alt-rocker turchi Adamlar hanno un seguito di due milioni e mezzo di ascoltatori mensili su Spotify, pressoché tutti in Turchia se si esclude qualche fan in paesi limitrofi e – realisticamente perché immigrato – in Germania. Un peccato, perché il loro stile chitarristico corposo ma atmosferico, con influenze mediorientali ma nessun esotismo da cartolina, suona graffiante e magnetico a prescindere dalla nazionalità. Hanno invece un solido status di cult band i cinesi Omnipotent Youth Society, autori con “Inside The Cable Temple” di un magnum opus art/progressive/jazz/folk che ha raccolto le attenzioni anche di qualche connoisseur nel resto del globo, ma certamente non è giunto a conoscenza della massa della massa degli appassionati di musica indipendente. Fatica a emergere fuori dai confini della nativa Ungheria anche il focoso indie-rock dei Carson Coma, che pure – col suo piglio scanzonato e suoni non lontani dal post-punk – avrebbe tutte le carte in regola per bucare presso un pubblico più cosmopolita. Giusto il funambolico prog-pop degli ucraini Ziferblat, che al momento si ferma a quota trecentomila ascoltatori mensili, ha una realistica speranza di farsi conoscere maggiormente all’estero grazie alla partecipazione all’Eurovision 2025.
E non è solo questione di provenienza geografica. La qualità è ovunque, ma chi non ha la fortuna di incidere per l’etichetta giusta, non finisce nelle playlist che potrebbero richiamare attenzione, non gode della spinta delle maggiori testate musicali del mondo anglosassone, è condannato – anche nell’epoca dell’accessibilità totale – all’invisibilità di fatto, con buona pace di ogni retorica dell’inclusione.
Bolle, nicchie, scorciatoie
Social media, dispositivi mobili e piattaforme di streaming hanno creato per musicisti e ascoltatori un orizzonte illimitato, in cui scoperta e condivisione musicale sono possibili ovunque e in ogni istante. Ma non sempre l’iperconnessione ha generato un vero scambio. Più spesso, ha portato a una coesistenza disarticolata. Pubblici e comunità d’ascolto non sono più vasi comunicanti: raramente una svolta stilistica o perfino una nuova possibilità tecnologica riescono a filtrare da un ambito all’altro. È una conseguenza diretta dell’abbondanza e dell’incommensurabilità del panorama, che favorisce percorsi personali sempre più dettagliati e profondi ma anche sempre meno condivisi. È l’epoca delle micronicchie, degli ascolti a spirale, dei percorsi centrifughi.
La pluralità può generare scoperte vertiginose, ma spesso si ripiega su sé stessa. Piattaforme come RateYourMusic, che rendono possibili esplorazioni decentrate e approfondimenti personali, tendono al tempo stesso a creare forme di omologazione interna: le classifiche-somma create incrociando le valutazioni degli utenti diventano un riferimento autoreferenziale, che oltre a fornire una vetrina per i “soliti noti” tende a generare “divinità locali”, riconosciute e premiate solo all’interno di quella comunità. Altri artisti almeno altrettanto interessanti, al solito, restano ai margini. Un fenomeno analogo si verifica su Reddit, altro potente strumento di aggregazione e confronto: il punto di forza sul piano musicale sono le community che fioriscono attorno ai subreddit tematici, piccole miniere di spunti ed estetiche — che però, dopo una fase espansiva iniziale, finiscono spesso per chiudersi in se stesse, soffermandosi su giri di artisti ristretti che portano a esaurire la spinta propulsiva.
Parlando di piattaforme di streaming, Bandcamp resta anche dopo il cambio di proprietà un presidio importante per chi cerca un legame diretto tra artisti e ascoltatori, con circuiti che sfuggono alla logica delle major. Ma la ricerca è difficile, dispersiva: senza strumenti di raccomandazione efficienti come quelli di Spotify, i percorsi possibili restano frammentari. Una volta scoperto un artista interessante, è complicato trovarne altri che si muovano su coordinate simili, e di nuovo si resta con la sensazione che — tolti i nomi con cui si è entrati a contatto — in giro ci sia poco altro di interessante.
Spotify, d’altra parte, offre strumenti di ascolto continui e avvolgenti, ma tende a confermare gusti già espressi. La navigazione al suo interno è incentrata largamente su playlist algoritmiche e follow-up automatici, entrambi costruiti per proporre all’ascoltatore musica che “dovrebbe piacergli”, rinforzando le preferenze e disincentivando l’esplorazione. Il risultato è una forma di censura dolce: quella che seleziona in base alla probabilità di un clic dell’utente. La musica è ridotta a engagement e ne segue le logiche: in teoria, tutto è accessibile; in pratica, pochissimo è esposto. E se non viene mostrato, non sarà scoperto.
Senza bussola, ma con mappe da scambiare
Eppure, quest’epoca così disaggregata ha notevoli meriti. La pluralità del panorama è spettacolare, inebriante. Rende possibile come mai prima d’ora perdersi nel paesaggio e costruire percorsi di scoperta personali. L’esplorazione musicale come realizzazione e costruzione della propria identità, non come adozione di un’identità precostruita o segno di appartenenza a questa o quell’altra sottocultura.
L’eccesso di produzione non è crisi, ma fioritura continua, decentralizzata e obliqua. Non è un’epoca povera: è un’epoca eccedente. Non c’è una linea da seguire, ma miriadi di direzioni sovrapposte, divergenti, imprevedibili.
Come imparare a sfruttare questo potenziale inedito, a surfare con entusiasmo e consapevolezza questo nuovo oceano senza rotte preordinate? Innanzitutto, smettendo di cercare maniacalmente i salvatori della patria. Continuare a domandarsi “chi tiene in vita il rock” o “dove sta la vera scena” non fa che ricondurre ai nomi di cui tutti parlano — i meno interessanti, per le molte ragioni già illustrate. Il punto è che, forse, non serve più un centro di gravità musicale: il senso di smarrimento, retaggio di una cultura gerarchica del gusto, va se non abbracciato almeno esorcizzato. La dispersione odierna non è una perdita, ma un’espansione.
Bisognerebbe in effetti diffidare dai tentativi di accentramento, dalle classifiche riassuntive, da storie e playlist definitive. Sono schemi controproducenti, freni alla curiosità che — anche quando animati da ottimi propositi — finiscono sempre per far confondere il territorio con la sua brutalizzazione cartografica. L’ossessione di essere sempre aggiornati su chi sia il meglio del meglio, di aver sott’occhio il quadro completo, è solo un’altra faccia del rinchiudersi nella propria micronicchia credendo che fuori non esista nulla. L’ascolto non è un compito, è un cammino: vale la pena accettare la parzialità del proprio sguardo e puntare alla costruzione di un percorso appagante, consapevole del suo carattere irripetibile e difficilmente comune ad altri.
Anche percorsi personali possono però incontrarsi, e lo scambio è in effetti il modo più naturale per allargarli: un confronto che non ha come scopo trovare un accordo, ma per mettere in contatto mappe diverse. Non una gara fra gusti, ma un canale fra mondi possibili. Un commento online, una canzone sentita in un film, un nome citato di sfuggita, una maglietta vista a un concerto. Anche un sguardo diverso al tabellone di Ondarock può aiutare: non andando a cercare gli album con più voti, ma i titoli che hanno raccolto davvero l’entusiasmo di chi li ha recensiti. Sono quelli, i dischi col maggior potenziale: non funzionano con tutti, e forse proprio per questo possono lasciare il segno più di tutti gli altri. Il rischio è che non succeda nulla. Ma se scatta qualcosa, la scossa è reale. E vale più di mille ascolti tiepidi.
Dalle pagelle alle traiettorie
La dispersione non si combatte con la nostalgia dell’ordine, ma con la voglia di disegnare nuovi tracciati. Playlist tematiche, percorsi trasversali, accostamenti inediti: il senso non si trova, si costruisce. Non esiste un centro da inseguire, un nuovo pantheon da incoronare. L’attesa di un nuovo “Sgt. Pepper’s“, di un altro “Nevermind“, di un “Ok Computer” che dia senso a tutto, oggi non ha senso. Non perché ci si debba rassegnare a una mediocrità diffusa, ma perché quel tipo di impatto culturale non nasce nel vuoto: era l’effetto di un contesto che non c’è più, e giudicare il presente con gli occhi del passato vuol dire travisarlo fin dalle fondamenta.
Il compito della critica non è più cercare il disco epocale. È imparare a leggere le connessioni, aprire sentieri, mostrare incroci. Il critico non è un giudice: è un mediatore, un cartografo in territori mobili. La storia della musica non è un podio, ma un racconto in continua mutazione. Non si tratta di stabilire gerarchie, ma di rendere visibili i processi, di accendere una luce anche su ciò che cresce ai margini. Non basta più documentare l’hype: serve seguire le correnti carsiche, scovare le traiettorie che sfuggono agli algoritmi — e, quando serve, provare a smontare i meccanismi di questi ultimi: capirli, decifrarli, e mostrarne gli effetti sulla percezione e sulla circolazione della musica.
E serve anche cambiare sguardo. Abbandonare certi automatismi, ribaltare i frame dominanti. Sviluppare nuovi linguaggi per un panorama definitivamente mutato.“Non c’è più niente di importante”? C’è troppo, ed è bellissimo. “Manca una scena”? Ci sono mille micro-scene, e tutte parlano a qualcuno. “Solo X tengono vivo il rock”? Forse il rock non è più al centro. E va bene così. “Tutto è uguale, tutto è derivativo”? Le traiettorie si espandono in ogni direzione: la sfida è tracciare i fili che le connettono. “Bisogna difendere la qualità”? Bisogna moltiplicare i criteri, non imporne uno.
Raccontare il presente non significa più inseguire la completezza: significa restituire la complessità, moltiplicare i punti d’accesso, accettare che la mappa vada letta in scala variabile. La critica oggi non vive in un solo formato, né in una sola voce. Dalla forma classica — la recensione, l’articolo, il longform — si è passati a una galassia multimodale in cui diversi mezzi convivono e si completano. Basarsi su uno solo è mutilante. Ci sono YouTuber che mettono al centro il proprio percorso d’ascolto, diventando volti familiari da seguire più che autorità da consultare: alcuni con competenze mirate (il produttore, l’esperto di armonia, l’ex turnista), altri con uno sguardo e perfino uno stile comunicativo personali e riconoscibili. Ci sono podcast che non pretendono di spiegare tutto, ma offrono prospettive parziali, e proprio per questo decisive per qualcuno.
Ci sono webzine settoriali, piattaforme locali, blog personali (sì, esistono ancora) che continuano a tenere accese luci su scene vive ma periferiche, e libri (una marea!) nel loro piccolo fondamentali per costruire, dare profondità, sistematizzare, ciascuno nel proprio limitato ambito. E poi playlist ragionate — non algoritmiche — spesso anonime, ma capaci di orientare chi cerca punti d’accesso alternativi. Ci sono mappe visuali compilate collettivamente su Reddit, architetture enciclopediche su RateYourMusic, pagine wiki nate per mappare i dettagli di un microgenere, thread in cui la critica si fa conversazione e archivio. In questo spazio convivono approcci molto diversi: chi smonta i pezzi per spiegarne la costruzione, chi esplicita le proprie idiosincrasie, chi ragiona per longread e chi si sforza di creare clip ultracompresse per l’attenzione iper-frammentata dei feed. Nessuno di questi approcci è sufficiente da solo. Ma tutti insieme sono una mappa 1:1 — o forse perfino qualcosa di più: uno zoom infinito, un upscale per nulla Ai capace di rendere visibile ciò che prima sembrava indistinto. E perfino di creare senso e connessioni che non esistono ancora, ma presto potrebbero prender vita. Un modo per leggere il panorama non solo com’è, ma come potrebbe diventare.
Il rock non è morto. Ma forse tu sì
Chi si affanna a cercare gli eredi degli eroi del rock che fu si sta perdendo tutta la festa. Finisce per lamentarsi che nessuno è più in grado di rifare esattamente quella cosa lì. Come se la storia si fosse fermata, come se tutto quello che accade altrove non contasse, o fosse solo rumore.
Non è questione di farsi piacere tutto ciò che è nuovo, né di aderire acriticamente a ogni novità per sentirsi aggiornati. Non è questione di esibire finta apertura mentale, di tenersi al passo con l’hype, né tantomeno di ostentare giovanilismi di circostanza. È questione di prospettiva. Di capacità di rimettere in gioco i propri riferimenti, lasciandoli crescere a contatto con ciò che li disorienta. Seguendo lo stimolo dei propri gusti, senza però confonderli con leggi di natura.
Chi rinuncia alle vecchie mappe si ritrova davanti un territorio sterminato. È un paesaggio senza centro e senza confini precisi, in cui orientarsi è complicato, ma proprio per questo stimolante. Dove tutto può succedere e spesso succede. Dove i percorsi non sono segnati, ma da tracciare ogni volta. È un’epoca che chiede di essere attraversata, non decifrata dall’alto. Non ha bisogno di sentinelle del gusto, ma di viaggiatori curiosi.
Il cambiamento è già avvenuto. E sta già dando i suoi frutti — lontano dai riflettori, magari, ma non per questo meno significativi. La musica non è morta. È più viva che mai. Ma se la cerchi dove non c’è più, se continui a usare bussole smagnetizzate, se ti ostini a chiedere a ogni disco di essere “il nuovo X”, allora sì: il problema non è la musica.
Il problema sei tu.
08/06/2025