Approfondimenti – Hyperpop – La nuova scena italiana raccontata da una prospettiva inappropriata :: Gli Speciali di OndaRock
Ogni tanto mi trovo a canticchiare “30°” di Anna Pepe o qualche altro brano della gen Z, con un vago senso di vergogna. Indiscutibile che, considerati i miei 46 anni suonati, non sia musica per me e che cantarla sia al limite dell’appropriazione culturale. D’altro canto, mi piace pensare di essere una persona curiosa, che non ha mai sopportato i commenti agèe dei coetanei sul pop odierno (trap in primis).
Ho, al contrario, l’impressione che, finito il disgraziato decennio retromaniaco degli anni Zero (in cui, complice la diffusione di Internet e dei sistemi peer to peer, si è assistito a una sacralizzazione e musealizzazione, entrambe fuori luogo, della musica rock, che, da allora, pare essere rimasta in una teca, almeno per le sue manifestazioni di maggior successo), sia stato proprio il pop a riprendere la corsa e l’abbia fatto nell’unico modo apprezzabile, ovvero creando fossati generazionali pieni di coccodrilli.
Non ho la pretesa di essere sul pezzo, ma, per puntiglio, qualche sortita oltre quel fossato la provo. Quello che trovo spesso mi respinge, ma è giustissimo così. L’aria fresca, però, è indiscutibile: si tratta di una rivoluzione espressiva, stilistica e musicale (bisogna avere le orecchie foderate di pregiudizio per non rendersi conto che questi ragazzi e le loro “macchine benedette da dio” stanno realizzando qualcosa di totalmente nuovo), la cui iconoclastia infierisce sul nostro amato feticcio “album”, che viene fatto a pezzi e ridotto in brevissimi singoli o, al massimo, Ep da una ventina di minuti.
Chi parla, a riguardo, di “generazione tik tok incapace di attenzione”, forse dimentica la sintesi e l’immediatezza del rock‘n’roll delle origini o del punk. E di quanto anche loro provocassero ribrezzo agli adulti dell’epoca.
Insomma, resta sempre valida la considerazione di Chris Cornell: “Se quello che ascolti fa schifo a papà, allora è ok. E auguratevi che i vostri figli ascoltino musica che a voi non piace”.
Vale la pena, quindi, mettere da parte il paternalismo quando si entra in camera del proprio figlio. Tanto, alla lunga, vincerà comunque lui e guai se non fosse così.
La premessa vale sia per la trap che per il suo fratellino più giovane (parliamo di una scena che, almeno in Italia, si è sviluppata negli ultimi quattro anni) e meno chiacchierato hyperpop. La prima, come avrete capito, la apprezzo e, da metallaro, provo anche una profonda invidia per come riesca ad attirare gli strali medio-borghesi. Però, devo ammettere che non l’ascolto volentieri, il che, ovviamente, non toglie un’oncia alla sua importanza.
L’hyperpop, invece, è stato una splendida scoperta e girare dove mi porta Spotify è un vero piacere, un po’ guilty magari, ma non certo per il valore degli artisti. Forse per alcuni elementi che possono suonare familiari e piacevoli anche a uno della mia generazione: l’influenza synth-pop e chiptune, la cassa drittissima da unz unz di altri tempi (anche se alcuni artisti non disdegnano soluzioni estremamente complesse), i glitch e le esplosioni di rumore, il tiro quasi metal e, tematicamente, l’ossessione per videogiochi, manga e anime (passioni che accomunano i nati negli ultimi 50 anni). In generale, un costante senso di una poco contestualizzata nostalgia.
Certo, la contiguità con la trap emerge prepotentemente in una certa autoreferenzialità, nell’uso di uno slang escludente per chiunque abbia più di 25 anni, l’ostentazione di disagio o di non meglio precisate attività delinquenziali, ma, soprattutto, nel fatto che si tratti esclusivamente di musica da produttori (i vari Christiannife, EnimraK, Polvere, VillaHarcore, Aegeminus, apparentemente in secondo piano, ma la cui importanza è parti ai cantanti che mettono nome e faccia) nella quale gli strumenti canonici sono quasi del tutto banditi o, comunque, trattati fino a diventare altro. Questo, ancora più nell’hyperpop, vista, da un lato, la sua ostentata artificialità, dall’altro, il suo essere sostanzialmente ancora troppo povero per poter uscire dalle camerette. Inoltre, non vi è traccia della (spesso wannabe, ma tant’è…) blackness che caratterizza la trap.
L’hyperpop è bianco e nevrotico come la new wave. Ed è proprio la nevrosi il suo filo conduttore, vuoi quella sessuale (Troyamaki), vuoi quella consumistica (Sillyelly, AleXXiSt4r), vuoi direttamente quella psichiatrica (NXFEIT, Narcolessia). Anche con artisti apparentemente più posati (Thru Collected o Pseudospettri – non a caso, ai margini di questa trattazione), la quiete ha qualcosa di chimico, non drogato in senso comune, ma sicuramente medicinale.
Curioso che in questo marasma, si trovino anche artisti politicamente schierati a sinistra (Yung Paninaru, Franchetti, Emilio Paranoico – provocatori, sì, ma fino a un certo punto) e che il tutto sia partito da un gruppo demenziale.
Pop X
Loro, appunto. Certo, le origini nobili del movimento si trovano nella Pc music di AG Cook, nei Crystal Castles, nella buon’anima di Sophie, in Charli XCX, nei 100 Gecs etc, ma, in Italia, l’influenza dei Pop X non è sottovalutabile. Non si tratta, tecnicamente, di un gruppo hyperpop (sono una scheggia impazzita schizzata via dal tronco dell’it-pop) e, sicuramente, non fanno parte di quella scena (quantomeno per motivi generazionali: il mastermind Davide Panizza è un classe 1985), ma la destrutturazione della forma canzone, trasformata in parata di strumenti giocattolo della Clementoni, la voce trattata da overdose di elio (con la “e” piccola, ma, a ben pensarci, anche un po’ con quella grande), il nonsense autocompiaciuto come una battuta che fa ridere solo chi conosce i presupposti, sono elementi che troveremo in quasi tutti gli artisti di questo elenco.
Li vidi dal vivo all’edizione dell’Ama del 2018, in prato Santa Caterina a Bassano del Grappa. Era la giornata dell’elettronica e del holi, con i bustoni di polvere colorata. Quest’ultimo, non sapevo che cavolo fosse (e, infatti, commisi l’errore di andare con una polo bianca) e nemmeno i Pop X li avevo mai sentiti nominare (ero lì per i Digitalism). Quando, nel tardo pomeriggio, Panizza & C. salirono sul palco, tantissimi ragazzini, che fino a quel momento si erano impiastricciati i vestiti a vicenda, si fiondarono sotto a cantare assurdità su missili senzienti, secchi e vacche, come se si trattasse di hit clamorose che, però, non erano passate in radio nemmeno per caso (i Pop X godranno di passaggi solo a partire da “Antille”, mentre, all’epoca, era tutto un girarsi i link di YouTube). Questo, mentre musicisti mettevano in scena un teatrino assurdo che ho visto simile solo a un concerto dei Flaming Lips, a differenza dei quali, non credo si drogassero.
Mi piace pensare che i ragazzi dell’hyperpop siano stati tutti influenzati da un concerto simile.
(DANZƏ)
Con la deprecata schwa nel titolo e un floppy disc bruciato in copertina (per altro, 100 floppy disc sono stati l’unico formato fisico in cui il disco è uscito- quindi, impossibile da ascoltare, se non per gli appassionati di trovarobato), Il dito medio alle generazioni precedenti non poteva essere più chiaro.
Nel 2021, mentre si entra nei e si esce dai vari lockdown, il collettivo capitolino Le Major, dopo aver setacciato Soundcloud e Twitch, mette insieme 25 tra musicisti, produttori e videomaker, tutti da zone diverse d’Italia (nessun milanese e quasi nessun romano) e tutti abituati a comporre, arrangiare e diffondere la loro musica esclusivamente da casa. L’età varia tra i 14 e i 24 anni.
Il risultato sono 30 minuti di musica (oltre a un corto che ha accompagnato l’uscita) e l’esplosione di una nuova scena.
Ci sono il talento pop di Troyamaki e Marco444, le assurde cantilene da casa delle bambole di Hello Mimmi, l’alienazione rabbiosa di NXFEIT (che “colpisce un creeper per sentire qualcosa” – anche questa l’ho compresa vedendo i miei figli giocare a Minecraft) e rassegnata di Narcolessia, le voci disumane di Cherry Ills e le filastrocche elettroniche di natimernero!. Non mancano nemmeno divagazioni trap (“Amazon” di Foreverboymush) e Idm (la conclusiva “Traccia 15” di Ermete Diara degli Pseudospettri).
Tanto in poco tempo, e con una produzione che trasforma un potenziale pastrocchio in un fenomeno di coesione. Il tutto tra gente che, fisicamente, non si è mai incontrata e che comunicava su Discord e Whatsapp – e che, anche in futuro, avrebbe continuato a collaborare fruttuosamente.
Se me lo chiedete, una fotografia perfetta di un periodo storico e un disco che in futuro assurgerà allo status di pietra miliare.
Troyamaki
Il/la mi* preferit*. Ragazzo, ragazza o altro in base a come gira, pansessuale con una predilezione per i “daddies XL”, ce n’è abbastanza per èpater la bourgeoisie, far urlare al gender la Roccella e al woke i nerd fregnoni su YouTube. Giammarco Mancini, abruzzese classe 1996 (è uno degli “anziani” della scena), in arte Troyamaki, ha riempito Soundcloud e Spotify di singoli ed Ep, con minimo comune denominatore di un’efficacia fuori scala. Tra le sue influenze, cita senza vergogna gli Eiffel 65 e Raffaella Carrà e, infatti, le sue canzoni sono uno di quei party che non ti dimentichi per il resto della vita, con un gusto per l’elettronica vintage che non è mai, nemmeno per caso, calligrafica, ma sempre riletta in un’ottica moderna e fresca.
Come siamo riusciti, in Italia, a far passare sottotraccia bombe come “Morsi”, “Acidi” o “Dottore” è ai limiti del codice penale. In un mondo più giusto, questi brani sarebbero in heavy rotation e a Sanremo avremmo Troyamaki al posto di Achille Lauro e Rosa Chemical.
NXFEIT
Ad oggi il suo capolavoro (ovviamente, un Ep di una ventina di minuti scarsi) si intitola “CASSA DRITTISSIMA !!”, e già qui mi dichiaravo conquistato. NXFEIT (volutamente impronunciabile, al secolo Davide D’Errico da Trieste) sublima il suo disagio in arroganti bordate di elettronica 8-bit e harsh noise, con un piglio punk e metal che scalda il cuore. Impossibile ascoltare “CAZZICORE” e “BACKSTAGE” (il capslock è d’obbligo, come insegna M¥SS KETA, altra madrina di questa scena) senza che venga voglia di pogare contro i muri. Persino in momenti apparentemente più spensierati e melodici come “MISA & LIGHT” (né felice né coppia – ma certamente stilosi), in duetto con Sillyelly, il ritmo non viene mai abbassato.
Nei testi, confusi tra slang e voci filtrate, quasi volesse rendere difficile essere compreso, emerge una sofferenza interiore che trova requie solo con sigarette, medicinali e Minecraft (gioco zen per eccellenza e altro feticcio generazionale – nel senso che è impossibile per qualcuno della mia età giocarci senza farsi esplodere le palle dopo un quarto d’ora).
Un altro talento cristallino che sarebbe imperdonabile perdersi.
Di loro, invece, ce ne si è, giustamente, già accorti. Magari non fanno parte della scena, ma sono una scena a parte. Bisogna premettere che, con l’ultimo lavoro (“Il grande fulmine”), le sonorità propriamente hyperpop sono state messe da parte. Se pure il collettivo campano persiste nella sua meritoria opera di destrutturazione e ricomposizione della canzone italiana, adesso lo fa utilizzando più gli strumenti tradizionali e meno l’elettronica. Che, invece, imperava nell’esordio “Discomoneta” e nel parimenti pregevole “Napoli Undercore” a firma dei soli Specchiopaura.
Rispetto agli altri artisti di questa trattazione, qui manca il tiro più prettamente radiofonico e danzereccio. L’anima è cantautorale, ma la carne attorno è sintetica. Caldissime entrambe. I ritmi sono sempre spezzati e, oltre agli elementi elettronici, emergono palesi influenze dub e shoegaze. In generale, non c’è una singola soluzione banale o prevedibile, in qualsiasi loro brano e, obbiettivamente, non è musica da ascolti distratti, ma, anzi, richiede attenzione come le avanguardie più colte. Più che di hyperpop, qui si dovrebbe parlare di “post-pop”.
Parrà retorico (e paraculo), ma a un certo punto bisogna ammettere che non abbiamo ancora termini di paragone per poter descrivere appieno quello che questi ragazzi stanno realizzando.
Sillyelly
Torniamo frivoli. Sulla pagina Spotify di Sillyelly (Elen Lanza, nata a Rimini nel 2002) troneggia, con 26 milioni di ascolti, il brano “Hello Kitty” in duetto con Anna Pepe e contenuto nel già citato “Vera Baddie”. Solo il tempo ci dirà se questa featuring ci regalerà il primo grande nome di successo della scena hyperpop. Successo che lei millanta in quasi tutti i suoi testi, ma che ancora, almeno fuori da Soundcloud, non c’è.
È indicativo, comunque, che la nostra venga da una famiglia di giostrai. La sua è orgogliosamente musica da autoscontri (genere non sottovalutabile, se non altro per il suo essere da sempre parte integrante dei rituali di corteggiamento tra adolescenti) e, per un paio di anni, ha centrato in pieno tutte le macchinette possibili.
Come smontano cervelli e regalano sorrisi beoti brani come “Sumikko Gurashi”, “Waifu Material” e “Girl Boss” (ça va sans dire, ispirati alla cultura pop nipponica più scema e colorata), lo fa davvero poca altra roba. Quando si ha bisogno di endorfine, le sue piccole costruzioni danzerecce sono l’ideale, se si soprassiede sui testi, sempre oscillanti tra un involontariamente demenziale egotrip, sparate delinquenziali poco credibili e qualche botta di asettico vittimismo (anche se, detto a sua lode, mantiene costantemente un atteggiamento spigoloso e di sfida ed evita banali sessualizzazioni). Finora, ha raggiunto il suo apice con il pregevole Ep “Manic Pixie Dream Girl”, in cui emerge anche una certa varietà nelle soluzioni, che, a dirla tutta, manca nelle uscite successive. Ha, comunque, tutto il tempo per conquistare il mondo.
Hello Mimmi
Se Sillyelly è ossessionata dai manga, la romana Caterina Pelliccia, aka Hello Mimmi, non ne ha bisogno, perché ci vive dentro. Un manga che si è schiantato con l’auto contro gli studi Mediaset negli anni 90. Ovviamente, all’epoca, aveva solo il foglio rosa.
Dagli adorabili esordi oltre il limite del demenziale come “Il villaggio incantato delle mutandine” e “Cooking Mimmi”, passando per il disco di cover “Karaoke” (appunto), la nostra è una bambina che ha passato i pomeriggi guardando “Non è la Rai” (in realtà, e per sua fortuna, non era ancora nata – è una classe 2001) e cerca di imitare le ragazze in tv cantando con una vocina acuta (effettatissima) e, si può immaginare, ballando goffamente.
Eppure, anche lei, di colpo, cresce (un po’ come le farfalle – parliamo di una maturazione estremamente repentina in una carriera che ha, sì e no, tre anni) e tira fuori dalla cuffietta un disco clamoroso come “Canzoni accelerazioniste per ragazze apatiche”, in cui mischia vaporwave, trip-hop e dream-pop, sfiorando il capolavoro in “Passenger Princess” e raggiungendolo in “Mani Pulite (sabba romano)”, che giustifica pienamente la, apparentemente incongrua, immagine del caprone in copertina.
Pseudospettri
Il loro esordio si intitolava “Summertape” e di estivo non aveva proprio nulla – se non un senso di vaga tristezza da canicola agostana. Come per i Thru Collected, parliamo di un collettivo (una ventina di ragazzi con base in provincia di Lucca, pare), con la predilezione per lavori dall’alto minutaggio e minori concessioni alla stupidera danzereccia degli altri nomi della scena (di cui, però, fanno indiscutibilmente parte, come provano le numerose collaborazioni con artisti di questa lista). Anche qui, c’è una maggior vicinanza al cantautorato, ma anche al pop tout court. Tuttavia, se i Thru Collected osano soprattutto a livello di struttura, gli Pseudospettri prendono la canzone di stampo it-pop, del tipo più malinconico (anche se non mancano sferzate di energia) e le cuciono addosso arrangiamenti folli e cangianti, di base, ovviamente elettronica.
L’ultimo disco “Presudotape Vol. 3: Presudomania” è un’ottima introduzione alla loro discografia.
Narcolessia
Anche Filippo Sancasciani da Livorno, in arte Narcolessia, predilige atmosfere più riflessive (i suoi testi sono, obbiettivamente, tra i più acuti sfornati dagli artisti hyperpop, tutti contrassegnati da un disagio personale, stemperato, però, con generose dosi di ironia) e mette in primo piano l’aspetto cantautorale rispetto a quello da dancefloor. Ciò non gli impedisce di avere anche lui un’ottima presa e di aver realizzato tre Ep in tre anni (“Angeli” assieme a Liltagliagole, “Tutto bene finché non sanguino” e “Micixsempre”), tutti ugualmente riusciti, con perle come “Gasligthling” e “cineblog1”.
Marco444
Analogo discorso potrebbe essere fatto per Marco444 (non ho trovato il vero nome, abbiate pazienza), che, oltre a far sfoggio di un paio di baffi molto hipster, è decisamente il più urban del lotto. Le sue canzoni, infatti, hanno spesso un taglio pop moderno (ma non tutte – la recente “Lacrime di ferro” ha un arrangiamento decisamente rumorista) che non sfigurerebbe sulle radio mainstream, sia pure con una forte componente emocore, che è un tratto comune di tutti gli artisti di questa scena (in fondo, è una generazione che ha ottimi motivi per essere depressa), nel momento in cui decidono di uscire dalla pista da ballo. Comunque, consigliatissimo l’Ep “Araldica”.
AleXXiSt4R
Se fosse mio figlio, lo prenderei a sberloni. Ma non lo è, quindi posso lodarlo per il tiro e la chiarezza di intenti. Nostalgico di un’epoca che entrambi non abbiamo mai vissuto per motivi anagrafici (lui, marchigiano del 2002, troppo piccolo, io, veneto del 1978, già troppo vecchio) e di cui ricordo solo l’orrido spettacolo dei boxer che si intravedevano dalle braghe a vita bassa. Se gli ultimi artisti di cui ho parlato avevano come minimo comune denominatore un discreto livello di malinconia, qui siamo dalle parti dei Beastie Boys di “Ill Comunication”. Il suo unico album si intitola “Dance Mania” ed è una dichiarazione di intenti. Non c’è vita oltre la pista e la cafonaggine esibita è bene. Concetti esplicati in una quarantina di minuti (lusso!) di irresistibile unz unz quadrato e ficcante.
Trovo sociologicamente interessante che il suo anno di riferimento (e, parimenti, quello in cui il suo mondo finisce) sia il 2009, quando l’economia mondiale cominciava a collassare, ma in Italia non ce n’eravamo ancora accorti e qualcuno arrivava a dire: “Non esiste nessuna crisi, i ristoranti sono sempre pieni!”. E la gente lo votava entusiasta.
Liltagliagole
Si chiama Kevin e altro non so. Sono stato in dubbio se inserirlo in questa lista, perché, di fatto, è un trapper. Però, fa parte della scena fin da “(DANZƏ)” e ne è, peraltro, uno dei membri più attivi (numerose collaborazioni, soprattutto con Narcolessia). E, allo scilinguagnolo trap, accompagna un gusto dell’elettronica cheap che è indiscutibilmente di matrice hyperpop.
Fa parlare di sé con gli ottimi singoli “Slug” e “Giulia ti odio”, dai testi sufficientemente infami, sessisti e violenti, ma che, purtroppo, non finiscono all’orecchio di qualche giornalista della stampa mainstream, che ne avrebbe fatto una star puntandogli il dito addosso.
A differenza di altri artisti di questa scena che non vogliono essere capiti, lui adora essere chiaro e stare sullo stomaco. Ha la mia approvazione.
faccianuvola
Lui (Alessandro Feruda, valtellinese), invece, sembra fatto per superarle, le barriere generazionali: i suoi testi sono poetici e sognanti, privi di qualsiasi spigolosità e provocazione, la musica, pur esclusivamente elettronica, con riferimenti soprattutto alla trance, richiama soluzioni di natura progressiva e, sotto onnipresente velo di autotune, sale e scende una voce tecnicamente ineccepibile. Ascoltandolo, mi è venuto a tratti in mente un certo cantautorato italiano a cavallo tra gli anni 70 e 80, del tipo maggiormente contiguo alla morente scena prog (Alberto Fortis, i primi Matia Bazar…).
“Le stelle* Il sole; L’arcobaleno))” è un grandissimo esordio ed è facile prevedere per lui un futuro di successo (anche solo critico) fuori dalla sua cameretta. Manca l’atteggiamento di rottura, volendo, ma l’aria nuova è, comunque, rinfrancante.
Yung Paninaru
Chiudo con lui/lei, che si definisce “Queer Neurogender Prolet Hypertrap”, non lesina bestemmie e disprezza parimenti piddini, liberali, destre e rossobruni. Più che con gli altri artisti di questa lista, fa comunella con i tipi della P38 (il cui “Nuove BR” non sarà mai sufficientemente lodato). Veicola messaggi politici estremistici, compresa la politica del corpo. Sentirl* parlare di “attivismo gender contro il patriarcato”, un po’ mi ricorda Bello Figo che si vanta di “no pagare affitto”, ma, in ogni caso, è un* dei poch* che riesce a usare il termine “patriarcato” senza farmi venire l’itterizia, perché il suo non si pone come un insegnamento morale dall’alto, ma come una sfida a muso duro dal basso.
Comunque, “hypertrap” è una definizione corretta: tolto l’ultimo (deludente, quantomeno per le musiche) Ep “Canzoni per Compagnu dissidenti”, la sua discografia è un fiorire di musiche sintetiche, grafiche fluo e voci trattatissime.
Ma il gioco è soprattutto nel contrasto tra basi giocose e testi incendiari. “Comitato centrale del cuore”, la mia preferita.
30/03/2025