Andrea Staid: «Quello che possiamo imparare dalle piante e dagli animali»
«Dialoghi di Pistoia» lo fa tutti gli anni: ogni volta mette a fuoco il tema più urgente, quello di cui non si può non parlare. E questa volta, il Festival ideato e diretto da Giulia Cogoli, ha scelto come titolo «Stare al mondo. Ecologie dell’abitare e del convivere» e, tra il 23 e il 25 maggio, con l’aiuto di evoluzionisti, filosofi, poeti, registi, sociologi, scrittori e professori universitari cerca di rispondere ad alcune domande che siamo ormai costretti a porci tutti quanti: qual è l’impronta dell’umanità sulla Terra? Qual è il rapporto che le diverse popolazioni hanno
stabilito con il loro ambiente? E cosa succede quando intere aree geografiche non sono più abitabili e si spopolano, creando flussi di migranti?
Tra i tanti ospiti c’è anche Andrea Staid, antropologo ed editor, che da anni svolge attività di ricerca nel mondo dei migranti e dei rifugiati politici. Già autore di molti testi, ora è appena uscito il suo nuovo libro, Dare forme al mondo. Per un design multinaturalista (Utet), in cui scandaglia strategie, idee e adattamenti delle altre specie, da cui noi possiamo imparare.
L’intervista ad Andrea Staid
Che cosa si intende per «Design Multinaturalista»?
«Diciamo che è una mia revisione teorica del pensiero dell’antropologo brasiliano Eduardo Viveiros De Castro, che ha proprio teorizzato questo multinaturalismo in risposta al multiculturalismo. Il design multinaturalista è quello che non viene pensato e progettato solo per gli umani, ma considera sempre la relazione multispecie, con gli altri animali e con tutto il resto dell’ambiente, anche vegetale e minerale. È un design non antropocentrico: d’altra parte oggi sarebbe miope pensare solo agli animali umani».
Nel suo libro lei parla di castori che fanno dighe incredibili, di nidi di colibrì super sofisticati… Ma che cosa potemmo davvero copiare dagli animali?
«In realtà noi spesso ci ispiriamo agli altri animali: in Giappone, per esempio, hanno sviluppato il treno ad alta velocità studiando il muso affusolato del colibrì, per meglio capire l’aerodinamicità. Ci sono poi architetti che hanno ragionato sulle tane delle termiti che hanno una sapiente areazione interna, che, replicandola, sarebbe certo meno impattante dal punto di vista ecologico dell’aria condizionata. Guardando gli animali e le piante possiamo meglio capire quali e quanti materiali biodegradabili e compostabili si possono usare». Gli esempi biofilici sono tanti, come il sistema di sonar dei pipistrelli che ha ispirato lo sviluppo di tecnologie di localizzazione e navigazione, o la capacità di alcuni animali di aderire a superfici verticali che ha portato alla creazione di nuovi materiali adesivi. Molto interessante è lo studio della bioluminescenza di alcuni organismi marini che ha ispirato e può ancora ispirare sistemi di illuminazione a basso consumo.
Lei parla molto anche delle piante. E quale potrebbe essere un insegnamento che ci arriva da loro di cui potremmo far tesoro?
«Dalle piante potremmo addirittura dire che arrivano ancor più dritte: le piante stesse offrono materiali iper performanti, facili da utilizzare. Pensiamo alla canapa, che nel Sud Italia è stata sempre coltivata: con la canapa si possono fare mattoni estremamente coibentanti, sicuri, ecologici e molto economici. Possiamo poi guardare alle architetture vegetali, alla loro capacità di relazione: le radici degli alberi sono delle reti di comunicazione fantastiche, in grado di emettere e ricevere allarmi e informazioni. Come se gli alberi, sotto terra, si avvisassero su ciò che accade nel territorio intorno. Sicuramente possiamo farci ispirare, per trovare nuove forme e nuove funzioni». Immaginiamo di voler progettare un edificio, perché non ispirarsi alla maestosità di un bosco, alla saggezza di un alveare o alla perfezione di un guscio d’uovo? È questo il principio alla base della biomimetica: imitare la natura per risolvere i problemi dell’uomo. In fondo, la natura ha avuto miliardi di anni per perfezionare le sue soluzioni, e noi possiamo imparare molto da questa esperienza. Stephen R. Kellert, uno dei pionieri del design biofilico, definisce questo approccio come un tentativo di “tradurre la nostra innata tendenza a connetterci con la natura” nei nostri ambienti costruiti».
Adesso si parla molto anche di permacultura, di quella progettazione che riprende la diversità, la stabilità e la flessibilità degli ecosistemi naturali, capaci di auto-organizzarsi…
«Sì, infatti nel mio nuovo libro c’è tutta una parte sulla permacultura, che non può essere vista solo come un nuovo metodo di riorganizzare gli orti, ma è un modo di rivoluzionare la produzione alimentare, e più in generale la relazione che intercorre fra l’abitare e l’essere. È qualcosa di veramente profondo e interessante sia dal punto di vista filosofico-antropologico sia per gli aspetti più pratici. Credo che sia solo necessario avere il coraggio di intraprendere davvero un sentiero di cambiamento».
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