Alidad Shiri: «Il mio viaggio è durato quattro anni e mezzo: tra la vita e la morte, tra sangue e lacrime»
Si parla di rabbia, di amore, di filastrocche, di mare e di stelle. Dal 19 al 24 maggio, Molfetta, in Puglia, si trasforma in un palcoscenico diffuso per «Le Onde Raccontano», il festival letterario interamente dedicato a bambini, adolescenti e famiglie.
Un viaggio tra libri, teatro di strada, illustrazioni, musica e social media che mette al centro l’immaginazione delle nuove generazioni. Tantissimi gli ospiti, con spettacoli open air in Piazza Paradiso e laboratori d’autore: il festival – gratuito e partecipativo – celebra così la narrazione come strumento di crescita, inclusione e scoperta. Per chi sogna un mondo raccontato a misura di bambino, anche se, come fa Alidad Shiri, si parla di cose difficili come la guerra, come le bombe, come la paura. Lui, nato in Afghanistan, diventa profugo e, dopo un lungo viaggio tra la vita e la morte, arriva, all’età di 14 anni, in Italia, dove oggi vive. Educatore e pedagogista, è cofondatore di UNIRE (Unione Nazionale Italiana dei Rifugiati ed Esuli) ed autore del libro **Via dalla pazza guerra **(Harper Collins), che, selezionato per La Giuria delle Onde, presenta al Liceo Scientifico Da Vinci di Molfetta il 23 maggio.
L’intervista ad Alidad Shiri
Lei è fuggito dall’Afghanistan quando ancora era un bambino. Che cosa vuol dire per un bambino? I pensieri saranno immagino diversi da quelli che dilaniano un adulto… Quali erano le sue preoccupazioni?
«Ero un bambino un po’ incosciente, impaurito, con il grande dolore di sapere che non avrei più rivisto le persone a me più care della famiglia, che mi avevano distrutto. Non volevo diventare un rifugiato, credo che nessuno lo voglia. Non potevo fare altro che fuggire da quella situazione di continuo pericolo in cui mi trovavo. Ovviamente avevo tante preoccupazioni: andare in territori sconosciuti, vivere con persone sconosciute, altre culture, altre lingue, dovevo cominciare tutto da zero».
Quando si scappa da dove si comincia? Chi si contatta, come ci si muove?
«Quando siamo partiti dall’Afghanistan per il Pakistan aveva organizzato tutto mia zia con suo marito. Bisogna purtroppo sempre rivolgersi a un trafficante, o perché non si hanno documenti, o perché manca il visto. Dal Pakistan all’Iran mi ha organizzato il viaggio la zia, un tragitto che ho fatto da solo in compagnia di persone che non conoscevo: dopo 23 giorni sono arrivato a Teheran, affrontando tantissimi pericoli. Ero arrabbiatissimo con la zia, perché non capivo, mi sentivo allontanato. Da Teheran ho poi organizzato io il resto del viaggio, con quello che avevo guadagnato lavorando di notte. È stato una lunghissima avventura, tra la vita e la morte, tra sangue e lacrime. Alla fine, tutto il mio viaggio dall’Afghanistan all’Italia, è durato circa quattro anni e sei mesi».
Lei scrive «la perdita, giorno dopo giorno, di pezzi della sua famiglia». Che cosa vuol dire ritrovarsi da solo?
«Non è facile perché ero arrabbiato con tutto e tutti, mi sentivo solo, sradicato dalla mia infanzia, dalle sue gioie, dagli amici, da tutto quello che a un bambino sembra naturale e che desidera».
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