Adele Grisendi e La figlia di Nora, una storia che rinasce dall’eredità di Giampaolo Pansa: “Così voleva dare voce ai vinti”
Adele Grisendi è stata per oltre trent’anni compagna di vita di Giampaolo Pansa, scomparso il 12 gennaio 2020. Non c’è nulla di commemorativo in questo fatto. Solo il peso concreto delle cose che restano. Con La figlia di Nora, ora in libreria per Rizzoli, Grisendi ha deciso di raccogliere il filo del racconto lasciato aperto da Pansa nel romanzo I tre inverni della paura. Dall’omicidio di Nora Conforti, lo sguardo si sposta su Giulia, la figlia di Nora. Il libro è uno spaccato della storia d’Italia dal Dopoguerra agli anni Ottanta. Un romanzo che tiene insieme vicende intime e passaggi cruciali della memoria collettiva. Una storia che rinasce dall’eredità di uno dei più grandi giornalisti italiani.
Adele Grisendi, quando ha capito che la storia iniziata con I tre inverni della paura doveva proseguire con la sua voce?
Il seguito de I tre inverni della paura l’avevo suggerito a Giampaolo, ma lui non ne era attratto. Però la storia è rimasta nella mia testa sino a diventare La figlia di Nora. I personaggi sono gli stessi, ma diverso è il tempo storico in cui si muovono. Non più quello della guerra civile, bensì l’Italia del dopo 1946, anno in cui per Giulia, la figlia di Nora, la guerra non è finita. In una delle tante vendette del dopo 25 aprile, lungo un viottolo tra i campi, una mano sconosciuta le ruba la mamma.
Come ha preso forma Giulia, una bambina che parla attraverso il silenzio?
Il 31 ottobre 1946 Giulia ha tre anni e mezzo e Genio, il fratellino, soltanto sei mesi. Cresceranno circondati da una famiglia amorevole che, per proteggerli, mette il loro bene davanti a tutto, traendone la forza per convivere anch’essi con quel dolore profondo. Giulia è piccina ed esprime la potenza del suo tormento con i silenzi, la scontrosità, il pianto, la perdita del sorriso, il rifiuto testardo dell’assenza di Nora. Attraverso questa bambina mi sono prefissa di raccontare una storia universale. Giulia paga l’appartenenza di Nora alla classe sociale degli agrari e l’adesione del nonno materno al fascismo, ma è lo stesso dolore patito dagli orfani di chi la guerra l’ha vinta. E da tutti i bambini che, per un qualunque motivo, perdono la mamma.
In questo romanzo sono le donne a custodire la memoria. Una memoria silenziosa, fatta di gesti. È un destino o una forma di resistenza?
Lentamente, la famiglia di Villa Anita si allontana dalla tragedia iniziale, ma il ricordo non svanisce, anzi ritorna di continuo e accompagna i bambini mentre crescono. Le donne, solo in apparenza, sono silenziose. A parlare per loro sono i gesti, i silenzi, i richiami, i consigli, gli sguardi, i suggerimenti. Del resto non è il modo in cui le donne sorreggono le famiglie?
Lei ha vissuto accanto a Giampaolo Pansa per più di trent’anni. Come ha accompagnato la sua scelta di raccontare verità scomode, spesso controcorrente?
Giampaolo, con i suoi libri revisionisti, ha scelto di raccontare le pagine della guerra che i vincitori avevano tenuto nascosta. Dare voce ai vinti per lui, che non ha mai cessato di giudicarli dalla parte sbagliata, aveva il senso di completare la storia. Il sangue dei vinti è del 2003 e lui, nella sua ingenuità, sperava che, a quasi sessant’anni dalla Liberazione, gli italiani fossero pronti ad accettare l’esistenza di memorie diverse e si potessero così sanare le fratture che invece sopravvivono ancora oggi. Ho condiviso la sua scelta. Ero convinta che fosse giusta e non ho cambiato idea, altrimenti non avrei scritto La figlia di Nora. Come afferma una Giulia ormai cresciuta discutendo con i familiari della tragedia del Vajont, la verità deve essere svelata. Sempre. Non importa chi la scrive o ne ricava vantaggio.
Pansa era un fiero “rompiscatole”.
Era un bastian contrario. Un rompiscatole, esatto. Che poi è anche il titolo della sua autobiografia. Era un giornalista che non si fermava alla prima risposta o al primo indizio. Seguiva il suo istinto e spesso percorreva strade solitarie. Non sarebbe diventato Giampaolo Pansa senza la sua curiosità, la cocciutaggine nella ricerca della notizia, a maggior ragione se la sentiva coperta da un paravento. Era spesso avanti un passo. Un solo esempio: ha scritto Il malloppo tre anni prima di Tangentopoli.
Che ricordo ha delle polemiche seguite a Il sangue dei vinti?
Ricordo Giampaolo che mi chiede: “Cosa ne pensi se scrivo un libro sulle vendette dei partigiani contro i fascisti?”. Risposta di getto: “Perderemo degli amici, ma vorrà dire che ne troveremo di nuovi”. E subito abbiamo iniziato i sopralluoghi girando in lungo e in largo dall’Emilia in su, impegnando molti fine settimana. Il libro ha suscitato la contestazione feroce di alcuni storici di parte e di suoi colleghi giornalisti. Lui reagiva ridendo: “Sono tanto fessi da farmi una pubblicità fantastica a costo zero”.
In cosa si riconosce nella scrittura di Pansa?
I nostri modi di scrivere sono diversi, non fosse altro che io sono una donna e lui un uomo. Però, è certamente vero che in trent’anni di vita insieme e di dialogo continuo ci siamo reciprocamente influenzati. Entrambi siamo stati i primi lettori e i primi correttori dei nostri libri, ma ognuno ha mantenuto la propria identità. Nella nostra coppia il rapporto era paritario. Autonomi, ma entrambi capaci di confrontarci a partire dalla nostra soggettività e di ascoltarsi con rispetto. Completarsi, non ha significato perdere le nostre caratteristiche individuali.
Che forma ha oggi il suo dialogo con lui, anche nell’assenza?
Giampaolo è presente nella mia vita. Il ricordo di noi svanirà soltanto quando anch’io avrò lasciato questo mondo.
Oggi Giulia avrebbe poco più di ottant’anni.
E sono convinta che sarebbe una femminista moderna e intelligente. Che non ha né dimenticato né rinnegato le sue origini. Una donna figlia dell’Italia che è cambiata e che continua a cambiare. Ma di certo, non una smemorata.
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