Cultura

Addio al batterista Al Foster, architetto ritmico del Jazz

È morto Al Foster, batterista jazz simbolo di sei decenni di musica, compagno fidato di Miles e Hancock.

Se n’è andato uno dei più profondi batteristi della storia del jazz, una figura discreta quanto essenziale che ha attraversato sei decenni di musica senza mai cedere alla tentazione dei riflettori, ma incidendo con la propria arte l’identità sonora di giganti come Miles Davis, Herbie Hancock, Sonny Rollins e Joe Henderson.

Al Foster è morto lasciando un’eredità fatta di swing tagliente, groove creativo e una sensibilità musicale che pochi altri hanno saputo eguagliare.

Un adolescente nel cuore del jazz

Quando a soli 16 anni già sedeva alla batteria in trio con Larry Willis e Eddie Gomez, il percorso di Foster sembrava già scritto. Ma il suo non è stato mai un cammino convenzionale. A differenza di molti suoi colleghi, non ha cercato la ribalta come leader: ha preferito la strada dell’accompagnatore attento, capace di stare al servizio della musica senza rinunciare a una voce inconfondibile.

Eppure, proprio questa scelta lo ha reso uno dei batteristi più richiesti e rispettati. A cavallo tra hard bop, jazz elettrico e fusion, la sua batteria ha incarnato un equilibrio perfetto tra disciplina e libertà, sorreggendo con eleganza i più grandi solisti del secondo Novecento.

L’anima dietro i tamburi

Foster non era solo un tecnico straordinario. Era un narratore percussivo, capace di raccontare storie senza parole. In ogni colpo di rullante o accento sul piatto c’era un pensiero musicale preciso, spesso carico di emozione.

Chi lo ha visto dal vivo con Miles Davis durante la svolta elettrica degli anni Settanta e ottanta sa quanto fosse determinante il suo apporto nel dare struttura a un mondo sonoro in costante mutamento.

Era come suonare accanto a un metronomo che respirava, disse una volta Herbie Hancock, colpito dalla capacità di Foster di mantenere il tempo con una naturalezza che non aveva nulla di meccanico.

Il commiato più personale

Nel 2023, a ottant’anni compiuti, Foster pubblicava Inspirations & Dedications, una delle rare occasioni in cui si è concesso il ruolo di leader. Non un testamento artistico in senso stretto, ma un disco profondamente intimo, costruito su tributi a colleghi, amici e familiari.

Due brani simbolo aprono e chiudono l’album: “Cantaloupe Island” di Herbie Hancock e “Jean-Pierre” di Miles Davis, due mentori che più di altri hanno beneficiato della sua visione ritmica.
In mezzo, un caleidoscopio di composizioni originali: dal frizzante omaggio al contrabbassista Doug Weiss in “Douglas”, fino alle dediche affettuose alle sue figlie (“Samba de Michelle”, “Kierra”, “Song for Monique”).

Tra i momenti più toccanti, “Brandyn” e “Our Son”, due brani che raccontano la perdita del figlio, scomparso nel 2017. In quelle note c’è tutto il dolore e l’amore di un padre, ma anche la forza catartica della musica come atto di memoria e rinascita.

L’impronta di una vita

Al Foster ha dimostrato per tutta la carriera che la batteria può essere uno strumento lirico, non solo ritmico. È stato il battito segreto dietro molte delle pagine più coraggiose del jazz moderno, ma anche un compagno affidabile per chiunque avesse bisogno di solidità e ispirazione.

Non era un uomo da interviste roboanti né da pose da star. Preferiva lasciare parlare il suo strumento, con quella naturalezza che solo i grandi possiedono. E anche ora, è impossibile non sentire l’eco del suo tocco: semplice, deciso, umano.




Source link

articoli Correlati

Back to top button
Translate »