Addio a The Handmaid’s Tale, la serie-capolavoro
Chi l’avrebbe mai detto che saremmo arrivati a dirlo: ci mancherà Gilead. Sì, ci mancherà quel luogo dell’orrore fatto di stupri istituzionalizzati, repressione religiosa, esecuzioni sommarie e donne sottomesse. Eppure, dopo otto anni, sei stagioni, innumerevoli zoom sul volto trafitto di dolore (e rabbia, e forza) di Elisabeth Moss, The Handmaid’s Tale è finita.
Ci lascerà un buco nell’anima, oltre che nella programmazione, perché – senza paura di esagerare – possiamo affermare che The Handmaid’s Tale è una delle migliori serie tv dell’ultimo decennio. Sta nell’Olimpo della prestige tv insieme a poche, pochissime altre. E il suo epilogo, per quanto sommesso e privo di colpi di scena spettacolari, ha saputo chiudere il cerchio con coerenza e, soprattutto, con una rara fedeltà emotiva al proprio universo.
Il finale non fa rumore
L’ultima stagione, composta da soli dieci episodi, ha un andamento diverso rispetto alle precedenti: più concentrata, più cupa, meno dispersiva. La tensione c’è, ma è una tensione sotterranea, costruita sui silenzi, sugli sguardi e sulle decisioni morali. C’è un’esplosione, sì, ma non un trionfo. Non c’è nemmeno una vera e propria chiusura: perché Gilead non cade davvero, ma viene ridimensionata, come un tumore che non è stato asportato, solo contenuto.
June, la protagonista ex ancella diventata leader della resistenza, torna simbolicamente là dove tutto era iniziato: nella casa dei Waterford. È una resa dei conti personale, interiore. Il cerchio si chiude non con la vendetta, ma con la riflessione. Anche se di azione, in realtà, ce n’è, a partire dall’atto più iconico – quel taglio netto del mantello rosso, che lei stessa si cuce per renderlo una bandiera – che riassume il senso dell’arco narrativo: le ancelle si sono ribellate davvero stavolta, e sono pronte a tutto, anche a usare la violenza, per distruggere il regime di Gilead.
Una serie profetica, figlia del suo tempo
Quando nel 2017 The Handmaid’s Tale debuttò su Hulu, sembrava parlare direttamente al presente. Era il primo anno della presidenza Trump, le donne con la cuffietta bianca e il mantello rosso comparivano alle manifestazioni come simbolo di resistenza. La serie sembrava gridare: guardate cosa può succedere se smettiamo di vigilare. E adesso che Trump è al secondo mandato, mentre in America si moltiplicano gli attacchi ai diritti civili e alle libertà personali, quella profezia distopica assume un tono sempre più inquietante.
Ma The Handmaid’s Tale non è solo un j’accuse politico. È anche, e soprattutto, un racconto umano, quello che ci mancherà di più non è solo la tensione dei suoi episodi, o la brillante messa in scena: ci mancheranno i suoi personaggi.
I personaggi, sempre un passo oltre il bianco e nero
June, eroina della resistenza ma anche assassina spietata. Serena, la nemica diventata madre, figura tragica e ambigua fino alla fine. Zia Lydia, carnefice eppure devota a un’idea distorta di giustizia. Nick, innamorato e complice. Lawrence, intellettuale cinico travolto dal proprio stesso gioco. La grande forza della serie è sempre stata questa: la complessità. Nessuno è solo buono o cattivo, sono tutti umani, contraddittori, sbagliati, ambivalenti. Anche il finale lo conferma: non c’è punizione definitiva, né redenzione totale. C’è solo la realtà, e la possibilità di cambiare.
THE HANDMAID’S TALE – “Train” – June and Serena’s journey takes an unexpected turn. Moira makes a bold decision. Nick deals with a powerful visitor. (Disney/Steve Wilkie)ELISABETH MOSS, YVONNE STRAHOVSKISteve Wilkie
La chiusura, aspettando il sequel
L’ultimo episodio, diretto da Elisabeth Moss e costruito come un addio lento e interiore, prepara il terreno per il futuro. Non solo per i personaggi, ma per il sequel stesso: la storia continuerà infatti con The Testaments, basato sul secondo romanzo di Margaret Atwood, ambientato 15 anni dopo i fatti qui raccontati. Eppure, il senso del finale è tutto nel presente. Non c’è un Gilead che esplode. Ma c’è la consapevolezza che il potere, quello vero, si trasforma, si riorganizza, si sposta. La resistenza non ha vinto, ma ha resistito. La lotta continua.
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