Cultura

Ace Frehley, addio allo “Spaceman” che portò i KISS tra le stelle

Ace Frehley, chitarrista originale dei KISS, muore lasciando un’eredità fatta di ribellione, suono inconfondibile e spirito libero del rock.

Se ne va Ace Frehley, il chitarrista che ha dato fuoco alle polveri del suono dei KISS e ha incarnato lo spirito più libero e selvaggio dell’hard rock americano degli anni ’70.

Il mondo lo ha conosciuto come “Space Ace”, volto alieno e chitarra infuocata di album diventati pietre miliari come Kiss (1974), Destroyer (1976) e Love Gun (1977). Ma dietro al trucco argentato e agli assoli esplosivi c’era un musicista inquieto, ribelle e spesso autodistruttivo, che ha vissuto il rock senza filtri né compromessi.

La sua parabola, iniziata con un’audizione leggendaria (“Sono entrato con una scarpa arancione e una rossa… ma avevo un Marshall con un fottuto gran suono”), ha cambiato la storia del gruppo e, probabilmente, dell’intero genere.
Lui stesso, nell’intervista rilasciata ad Andrew Daly per ClassicRockHistory.com, non aveva dubbi: Probabilmente i KISS non avrebbero mai avuto un contratto discografico senza di me.

“Io ero il suono dei KISS”

Frehley non ha mai nascosto il suo pensiero: Leggo spesso in rete che ero io il suono dei KISS, diceva. E in effetti il suo stile chitarristico – graffiante, diretto, intriso di blues e spazio cosmico – era la scintilla che trasformava i riff di Paul Stanley e Gene Simmons in bombe da stadio.

Eppure, dietro a quell’alchimia, c’erano tensioni profonde. Paul era un maniaco del lavoro, io un alcolista. E anche Peter Criss lo era, raccontava nella stessa intervista con il suo sarcasmo tagliente. “Per qualche motivo, però, quando salivamo sul palco succedeva la magia.”.

Il logo, gli errori e l’arte dell’imperfezione

Fu proprio Ace a ideare il celebre logo con le due “S” a forma di fulmine, poi rifinito da Stanley. Un dettaglio tra i tanti che raccontano il suo ruolo fondativo. Ma il suo contributo andava oltre la grafica: era il lato più umano e imperfetto di una macchina spesso ossessionata dal controllo.

Facevo un errore e ci ridevo sopra, perché questo è il rock’n’roll, spiegava. “Paul invece si girava e lanciava occhiate assassine a Peter ogni volta che sbagliava”. Per Frehley, la musica dal vivo doveva essere sporca, viva, imprevedibile, non chirurgicamente perfetta.

La caduta e la rinascita

Negli anni ’80, Ace affondò nell’abisso dell’alcol e delle droghe, anche se tentò un rilancio solista con dischi come Frehley’s Comet (1987) e Trouble Walkin’ (1989). Nonostante le difficoltà, l’ombra dei KISS restava sempre alle sue spalle. Persino durante la reunion tra il 1996 e il 2002, quando sosteneva di essere sobrio, la realtà era diversa.

La svolta arrivò solo nel 2006, con una sobrietà finalmente reale e una nuova fase creativa culminata nel suo ultimo album, 10,000 Volts (2024). Eppure, la ferita con la band non si è mai rimarginata del tutto. Non mi hanno mai chiesto di tornare per il tour d’addio. Mai. Tutto quel parlare… stronzate.

Il sogno mai realizzato di un ultimo giro

Nonostante tutto, Ace avrebbe voluto un ultimo saluto insieme ai compagni di una vita. Mi sarebbe piaciuto fare un ultimo giro con i KISS e dare ai fan ciò che chiedevano. Ma non è stato possibile. E aggiungeva con la sua consueta franchezza: Se fossi tornato avrei fatto miliardi, ma a quale prezzo? Quelli sono workaholic ossessionati dalla perfezione… anche se non l’hanno mai raggiunta.

Lui, invece, aveva imparato a guardare oltre il denaro: Se non avessi lasciato la band non avrei avuto la carriera solista che ho avuto. Certo, con questa non ho fatto i miliardi dei KISS, ma chi cazzo vuole far parte solo di un’accozzaglia di soldi?

L’eredità di uno spirito libero

Ace Frehley non era un chitarrista impeccabile, e non ha mai voluto esserlo. Era istinto, ironia, caos e cuore, un uomo che ha trasformato i suoi eccessi in energia creativa e le sue fragilità in forza espressiva.

Anche nei rapporti più burrascosi con i compagni, non ha mai negato l’affetto che provava: Ho preso un sacco di botte da quei ragazzi, ma li amo. Amo Paul, amo Gene, amo Peter. Avrei voluto che le cose andassero diversamente, ma Dio aveva un piano per i KISS e uno per me.

Il rock perde così uno dei suoi personaggi più autentici e indomabili, un artista capace di lasciare un segno profondo non solo nella storia dei KISS, ma nella memoria di chiunque creda che il rock sia ancora, prima di tutto, libertà, rischio e imperfezione.


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