Abuso d’ufficio: la Cassazione ci ha detto, in sintesi, che la riforma Nordio è incostituzionale
di Enrico Carloni*
L’abolizione del reato di abuso di ufficio è stata una scelta, radicale e per ciò stesso problematica, frutto di una combinazione di fraintendimenti e cattiva volontà. Tra i fraintendimenti, l’idea che abolire un reato sia di per sé espressione di cultura garantista, il che è profondamente sbagliato se il reato di cui discute è posto a presidio dei diritti di fronte all’abuso di potere. Un secondo fraintendimento, quello legato all’idea che l’abolizione dell’abuso di ufficio avrebbe favorito l’efficienza di una amministrazione bloccata dalla “paura della firma”: non che non esista il problema della “fatica dell’amministrare”, ma non lo si risolve consentendo al funzionario di operare in aperto conflitto di interessi (e attendiamo di verificare l’incremento di efficienza frutto delle riforme che hanno progressivamente spinto verso un’amministrazione meno responsabile di fronte alla violazione di diritti).
Un ultimo fraintendimento, quello che ha portato a vedere nell’abuso di ufficio un reato marginale, quasi “inutile”: quotidianamente leggiamo sui giornali di vicende di abuso di potere, di prevaricazioni, di clientelismi non più perseguiti, che ci mostrano come questo reato svolgesse una funzione importante. Di contrasto, di deterrenza, ma soprattutto una funzione culturale, esplicitando ai funzionari e agli amministratori pubblici il rifiuto di ogni forma di abuso di potere.
Le cronache riportano storie di archiviazioni, di procure e tribunali che prendono atto dell’abrogazione del reato e quindi rinunciano a procedere pure a fronte di concorsi falsati, di prevaricazione di diritti, di favoritismi a danno di interessi pubblici e privati. Trattandosi di una riforma che espone il cittadino all’abuso di potere, non sono mancate eccezioni di illegittimità costituzionale: è in effetti evidente che il fatto di tollerare che le autorità pubbliche abusino dei propri poteri rischia di svuotare il senso profondo di alcuni pilastri del disegno costituzionale. Basti pensare all’art. 2: i diritti sono davvero “inviolabili” (e, quindi, la Repubblica davvero li garantisce) se l’abuso di potere a danno degli individui non è sanzionato? Ma il discorso potrebbe continuare.
Il tema è però complesso: la Corte costituzionale esita a dichiarare l’incostituzionalità di una legge se l’effetto che ne deriva è quello di re-introdurre un reato. Questo per rispettare alcuni principi fondamentali del diritto costituzionale penale: l’irretroattività della legge penale, l’applicazione della legge penale più favorevole al reo, la riserva di legge in materia di incriminazione. Una regola, della limitazione all’incostituzionalità con effetti “in malam partem”, che ammette alcune eccezioni: tra queste, la violazione di vincoli internazionali (od europei). Che si possa derogare al divieto di sentenze ad effetto criminalizzante per vincoli internazionali (e quindi per mancato rispetto del parametro interposto dell’art. 117) e non per violazioni evidenti di principi e regole portanti del disegno costituzionale (come l’art. 2, sulla inviolabilità dei diritti, o l’art. 3, come uguaglianza di fronte alla legge e all’amministrazione, o l’art. 97, sull’imparzialità amministrativa) dice abbastanza dello stato attuale dell’ordinamento.
Fatto sta che se la via aperta è, stando ai precedenti, solo quella della violazione degli obblighi internazionali, è proprio su questa che si concentra non a caso l’ordinanza di rimessione della Corte di cassazione (sez. VI, ordinanza n. 9442, del 21 febbraio, depositata il 7 marzo), la cui importanza non può essere sottovalutata. Per la chiarezza delle tesi che sostiene, ma soprattutto per l’autorevolezza della fonte.
La Cassazione penale ci dice, in sintesi, che a suo avviso la riforma Nordio è incostituzionale. Lo fa nel rimettere la questione alla Corte costituzionale ed in questo segue a numerosi altri tribunali, ma certo il discorso assume ora un altro senso.
Vale la pena seguire il percorso argomentativo della Cassazione, che percorre una linea di ragionamento che personalmente avevo già avuto modo di sostenere e prende spunto proprio dalla relazione di accompagnamento del disegno di legge “Nordio” e dalle sue promesse mancate. Nella relazione si legge, infatti, che seppure non più contrastati penalmente, l’abuso di potere e la prevaricazione restano illeciti, ed il sistema (della responsabilità amministrativa, dei meccanismi di prevenzione, della responsabilità disciplinare, degli altri reati contro l’amministrazione) è lì a garantire i diritti, “senza arretramenti”.
Ma un arretramento c’è, ed è evidente: questo perché la riforma non opera in nessun modo nel senso di rafforzare gli altri anticorpi (di tipo amministrativo, contabile, disciplinare), che anzi risentono negativamente del venir meno del controllo penale sulle condotte di abuso. Proprio la mancata compensazione “amministrativa” (extra-penale) dell’arretramento del contrasto penale, ed anzi l’impoverimento dei meccanismi di prevenzione se non più in dialogo con quelli di repressione (come è nel caso delle situazioni di conflitto di interessi), porta a valutare in termini critici la riforma. Una lettura sistemica della Convenzione delle Nazioni Unite, degli standard anticorruzione che impone e dell’inadeguatezza della risposta che fornisce ora l’ordinamento italiano, conduce ad affermare l’incostituzionalità della riforma.
Si tratta di una violazione della Convenzione che è relativa al suo disegno complessivo, ma che ha anche punti di emersione puntuali e specifici. E’ questo il caso dei conflitti di interesse: prima oggetto specifico di attenzione da parte dell’art. 323 del codice penale, che legava l’ipotesi dell’abuso di ufficio alle decisioni che avessero causato lesioni di diritti in violazione degli obblighi di astensione. Il venir meno del reato, impoverisce il contrasto delle situazioni di conflitto di interessi.
Viene allora in gioco, di nuovo ma in modo puntuale, il vincolo internazionale, e la sua chiara violazione. L’art. 7, comma 4, della Convenzione delle Nazioni Unite contro la Corruzione, prevede testualmente che “Ciascuno stato si adopera, conformemente ai principi fondamentali del proprio diritto interno, al fine di adottare, mantenere e rafforzare i sistemi che favoriscono la trasparenza e prevengono i conflitti di interesse”. Lo Stato, quindi, viola la Convenzione nel momento in cui riduce, e quindi non solo non rafforza ma addirittura non “mantiene”, il sistema di contrasto dei conflitti di interesse.
Mentre molte delle ordinanze di rimessione si erano concentrate su un’altra violazione della Convenzione, quella relativa all’impegno a criminalizzare l’abuso di potere (che però è imposto dalla Convenzione con un’espressione solo parzialmente vincolante), la Cassazione penale individua nell’impoverimento della tutela dei cittadini di fronte ai conflitti di interesse la lesione, invero chiara e inequivoca, di obblighi internazionali.
La storia dell’abuso di potere, o meglio dell’affermazione dello Stato di diritto contro l’abuso di potere, passa per la possibilità di invocare tutela contro gli atti arbitrari dei funzionari. Quella possibilità ci appariva scontata, non lo è più. La palla passa ora alla Corte costituzionale
*Professore ordinario di diritto amministrativo all’Università di Perugia
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