Céline Cousteau: «Non siamo essenziali per il nostro pianeta, dobbiamo ritrovare l’intelligenza dell’equilibrio»
Al telefono risponde con tono gentile e calmo, parla piano, ma si sente tutto l’entusiasmo di una persona appassionata. Céline Cousteau è la nipote del leggendario Jacques-Yves Cousteau, esploratore dei mari, ma soprattutto l’uomo che per primo portò l’ambiente al centro dell’agenda internazionale. La nipote ne ha raccolto l’eredità, ma a modo suo: con una prospettiva più intima, in cui l’esplorazione non è solo geografica ma anche umana.
Con una laurea in psicologia e una carriera tra documentari, arte e attivismo, Céline Cousteau ha scelto di raccontare le connessioni invisibili che uniscono persone e luoghi. Nel film Tribes on the Edge, girato in Amazzonia, esplora la vita e la vulnerabilità delle comunità indigene che la considerano parte della loro famiglia. «Quando provi la sensazione di stare isolato nella natura, cambia tutto: capisci che ogni scelta, anche la più piccola, ha un impatto su qualcosa di più grande», racconta.
Oggi continua a lavorare su progetti che intrecciano ambiente, empatia e consapevolezza, convinta che il racconto sia uno strumento potente per risvegliare il senso di appartenenza al pianeta.
A partire dal prossimo anno e fino al 2027 sarà impegnata nella realizzazione di un grande progetto Amazon River: From Ice to Sea che promette di raccontare l’intero corso del Rio delle Amazzoni. Cosa possiamo aspettarci da questa spedizione?
«Il progetto è guidato da Yuri Sanada, regista e produttore, ma non è ancora certo che partirà il prossimo anno. Il mio obiettivo principale è partire dalla sorgente più lunga e già conosciuta del Rio delle Amazzoni, sul monte Nevado Mismi in Perù, per mostrare il legame tra l’uomo e l’acqua: quando il ghiaccio si scioglierà, quando l’acqua scomparirà, cosa accadrà a quelle culture e a quelle vite? Yuri, invece, partirà da una sorgente più lontana e lavorerà con un gruppo di ricercatori con un approccio più scientifico».
In effetti noi spettatori vediamo il risultato finale delle vostre spedizioni, ma dietro c’è un lavoro molto lungo non solo nella realizzazione, ma anche nella preparazione.
«Sì, soprattutto nella preparazione. Per il pubblico, il nostro lavoro è ciò che accade quando siamo sul campo. Penso che sia interessante, per capire come funziona, dire che ci sono voluti quattro anni prima che Yuri approvasse il progetto».
Per lei non si tratterebbe della prima volta in Amazzonia, anzi, ha lavorato molto in quell’area del mondo. Cosa ha imparato finora dalle comunità indigene che potrebbe essere utile anche nella nostra società occidentale?
«Nel 2007 ho intervistato un leader della tribù Matis, in Amazzonia, chiedendogli come riescono a vivere in modo sostenibile. Lui mi ha guardato come se fosse una domanda senza senso, perché per loro non c’è distinzione tra uomo e ambiente: per sopravvivere come parte della natura, devi vivere in equilibrio con essa. Noi, invece, abbiamo costruito un mondo più complicato: viviamo in spazi climatizzati, guidiamo auto a benzina, compriamo cibo certificato bio per sentirci sostenibili. Tutto questo nasce dal tentativo di ricostruire artificialmente ciò che abbiamo perso: l’intelligenza dell’equilibrio. È così che si vive. Ed è questo che mi dà speranza, torneremo a capire ciò che in fondo abbiamo sempre saputo».
Quanto ha avuto un impatto la storia della sua famiglia nel suo lavoro e nella sua sensibilità con la natura?
«In tanti Paesi in cui vado trovo persone che ricordano la mia famiglia. È un legame più simbolico che personale, perché la storia dei Cousteau appartiene a tutti. Io ho il mio rapporto privato con il mio patrimonio familiare, ma quando qualcuno mi dice “guardavo il vostro show con la mia famiglia”, per me è un momento di connessione umana. Tutto questo va oltre la mia famiglia, è la storia di come una passione può diventare un’eredità collettiva».
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