«Ho vissuto per sei anni chiuso dentro casa. Per il mondo esterno provavo repulsione e paura. Ero abbastanza lucido per capire le cose, ma non così forte da poterle cambiare».
Due camere, un bagno una cucina e il soggiorno dove dormiva lui. Per sei anni, da quando ne aveva quattordici, la sua casa è stato tutto il suo mondo. Il luogo in cui si è rinchiuso in cerca di protezione. «È stato graduale. Sono accaduti degli episodi che mi hanno turbato e hanno fatto crescere la mia repulsione per il mondo esterno», racconta Maurizio. La sua voce è calda e morbida, ma le sue parole scavano ferite profonde. Ricorda di quando, alla fine delle elementari, quelli che credeva amici hanno cominciato a bullizzarlo e a escluderlo sia dalla vita reale sia dai giochi on line. Parla di insegnanti che non lo hanno capito, di una situazione di tensione in famiglia e di una realtà diventata ogni giorno più dolorosa, fino a spingerlo a ritirarsi da tutto.
«All’inizio della seconda superiore ho lasciato la scuola. Mia madre è impazzita, ma è stato inutile. Stavo al computer tutto il giorno: giocavo ai videogiochi oppure producevo musica. Dormivo e mi svegliavo quando capitava. Stare a casa mi dava sicurezza, ma provavo anche un rifiuto molto forte per il mondo fuori. Un odio che non riuscivo né a gestire, né a elaborare».
Maurizio è, secondo un dato quasi sicuramente sottostimato, una di quei circa 54 mila Hikikomori che hanno scelto un ritiro totale e prolungato per almeno sei mesi, spesso accompagnato da un inversione del ritmo sonno-veglia, dal rifiuto scolastico e dall’iperconnessione digitale. Sul tema uscirà il 20 novembre VAS, l’esordio cinematografico di Gianmaria Fiorillo, tratto dall’opera teatrale omonima di Sara Sole Notarbartolo, con Demetra Bellina ed Eduardo Scarpetta. Nel film si racconta la storia di Camilla e Marco, lei milanese e lui napoletano, che vivono reclusi e si incontrano on line.
Esattamente come accade a Maurizio i cui unici rapporti diventano quelli virtuali. «Dopo un anno di vita rinchiusa ho cominciato a peggiorare e ho avuto una depressione molto forte, sono stato ricoverato . Poi sono tornato a casa: solo io e il mio computer». Maurizio è intrappolato dentro il suo dolore. «Mi sentivo sotto anestesia: ero abbastanza cosciente e lucido da rendermi conto di essere in una situazione in cui non avevo una vita, ma non avevo la forza di cambiare. Avevo bisogno di tempo. E intanto stavo on line. La rete ha i suoi pro e i suoi contro. Un aspetto positivo è che puoi imparare delle cose. È una finestra sul mondo che c’è fuori. Un altro è che puoi trovare degli amici. Nel corso degli anni, soprattutto grazie alla musica, ho conosciuto on line una persona che mi ha molto supportato nei momenti più critici».
Gli studi parlano di un “adattamento difensivo”: non sempre una fuga dal mondo, ma una forma di autoprotezione di fronte a pressioni sociali, scolastiche o familiari non più sostenibili. «L’emozione di fondo dell’Hikikomori è quella che viene chiamata vergogna egodistruttiva», spiega lo psicologo Stefano Rossi. «Questi ragazzi hanno avuto uno scontro col mondo reale che ha in qualche modo tatuato dentro di loro, dentro la loro psiche, dentro il loro cuore, dentro la loro mente, questo senso di vergogna. Immaginatevi di trovarvi di colpo nudi in un luogo pubblico. Cosa vi viene da fare? Coprirvi, ritirarvi, proteggervi dalla luce. Una delle emozioni di fondo degli Hikikomori è proprio questa vergogna, questo senso di nudità. Loro si sentono troppo fragili e vulnerabili rispetto allo sguardo dell’altro e chiudersi nella caverna virtuale e domestica è l’unico modo per non andare in frantumi. Per questo non vanno mai forzati. Non vanno spinti fuori. Va fatto un lavoro graduale con lo psicoterapeuta per aiutare, con grande delicatezza, il ragazzo a ritrovare la propria bellezza, la propria forza interiore, quel vestito che gli consenta di sopportare il mondo».
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