Psychedelic Porn Crumpets – Pogo, Rodeo: Un’allucinazione psichedelica a occhi aperti :: Le Recensioni di OndaRock
Pensare che il rock psichedelico sia un genere anacronistico, da associare solo agli anni 60 e 70 del Novecento è una trappola seducente in cui è facile cadere. La neo-psichedelia, il genere, parente diretto, del grande movimento figlio della scena di San Francisco del ‘67, negli ultimi decenni sta sempre più imponendosi e prendendo piede in molteplici forme e diramazioni. La sua branca più pop è riuscita ad avvicinare numerosi ascoltatori al genere, come nel caso di “Currents” (Tame Impala) o ha invece, pensando a “Imaginal Disk” (Magdalena Bay), ha forgiato un suono talmente denso, coeso e creativo da poter ambire a diventare un vero e proprio classico moderno su cui porre le basi per un ulteriore sviluppo del genere.
Tra le altre diramazioni che ha preso la psichedelia, una delle più apprezzate appartiene al suo fratello più grezzo, più giocoso ma anche più anziano. Le contaminazioni stoner, garage e fuzz rock hanno avuto grande fortuna in Australia; tra i vari possiamo citare i prolifici King Gizzard & The Lizard Wizard che negli anni si sono imposti come una delle band di riferimento del genere, e, un po’ più nell’ombra, gli Psychedelic Porn Crumpets.
La musica degli Psychedelic Porn Crumpets è sempre stata caratterizzata dal contrasto tra riff pesanti – seppur funzionali e immediatamente riconoscibili – e voci oniriche, riverberate. Veri e propri trip mentali tra i quali perdersi e abbandonare la propria conoscenza per qualche ora. I 7 componenti del gruppo australiano, che hanno fatto conoscenza tramite il comune spacciatore e iniziato a fare musica in un fienile abbandonato, ci presentano il loro ottavo album all’attivo nonché secondo di quest’anno: “Pogo, Rodeo”. Il riff di apertura della prima traccia, “Salsa Verde”, ci dà una parvenza di perfetta coerenza con il titolo: la batteria martellante, dritta, distorta tallona la chitarra che ne segue le direttive e la voce sincopata nel ritornello è solo un anticipo della chitarra post-chorus che pizzica figurazioni sognanti e irregolari; la citazione dei Beatles di “Come Together” dopo il breakdown, poi, rende il tutto più folle e spaesante.
Le tre tracce successive si accodano a questo filone e sembrano dimenticare il passato più disteso dei due – “High Visceral” o la potenza melodicamente rifinita di ”Fronzoli” – per lasciare spazio a pezzi più fragorosi, d’assalto che sicuramente hanno fatto parte del loro passato ma mai in maniera così prorompente. L’incredibile quanto violenta “March On For Pax Romana”, singolo principale del loro album uscito qualche mese fa (“Carpe Diem, Moonman“), ha spalancato la strada a questo tipo di brani che non rinunciano però, nella loro durezza, a complessi layering di chitarre, a voci ariose e cambi di direzione imprevedibili, che rendono l’ascolto divertente, peccando raramente di prevedibilità.
La seconda parte del disco mette decisamente da parte l’adrenalina heavy psych che abbiamo ascoltato fino ad ora in favore di brani più morbidi, di maggiore accuratezza melodica, più influenzati dalla neo-psichedelia e dallo psychedelic pop. L’incantevole filastrocca “Unconventional Daze” ripete così tanto il ritornello da far sprofondare la voce in brillanti chitarre che la accolgono sofficemente. Le chitarre vorticose e il ritmo country, da rodeo, di “Texas Rangers”, insieme alla sincera spensieratezza sprigionata da “Looniversal” sono una transitoria boccata d’aria che ci fa respirare prima di addentrarci nella più pura psichedelia dei brani finali.
Le voci riverberatissime di “Watermelon” sono sognanti, insabbiate nelle trame strumentali e così melodicamente delicate da far completamente perdere contatti con il mondo esterno durante l’ascolto. L’intermezzo di chitarra seguito dal finale ci trasporta ancora di più in questo stato di alienazione temporanea, e ci innalza in volo, verso mete che non conosciamo ma che desideriamo immensamente raggiungere. “Bowling With Tim” procede in questo costante sogno lucido, con l’onirica melodia della voce che ci culla delicatamente e un riff di chitarra leggero che trasporta senza nessuna fretta al climax finale: un’esplosione che genera una completa confusione, un abbaglio allucinogeno delirante dal quale non si vorrebbe per nessuna ragione uscire, perché è così piacevole, così semplicemente bello.
L’album si conclude con le anomale ma per nulla fuori luogo chitarre acustiche di “Heading To Fringe”, che utilizza i suoi quasi cinque minuti di durata con calma, costruendo tassello per tassello il brano, sfumando sempre più le voci, protese nel breve finale strumentale che sancisce la fine del disco.
Il loro secondo album dell’anno riesce a combinare e a bilanciare l’iniziale crudezza garage-rock con sperimentazioni e cantilene neo-psichedeliche in cui è facile inoltrarsi e perdersi. Pur non rivelando picchi straordinari, “Pogo, Rodeo” consolida le loro abilità compositive, stilistiche e creative, confermandoli un solido punto di riferimento nella psichedelia contemporanea.
16/11/2025




