You’re No Big Deal 1984–1994. 10 anni tra Grunge e U.S. Underground

Prima che arrivassero i giganti, prima che i Nirvana si esibissero ad MTV e Kurt diventasse una sorta di Cristo riluttante, prima che i Soundgarden svettassero come cattedrali oscure, prima ancora che gli Alice In Chains scendessero nei pozzi più profondi dell’anima umana, tutto era ancora buio totale. Non c’erano poster, non c’erano mode, non c’erano etichette: c’era solamente un’America sporca, affaticata, tossica e cattiva che respirava fumo industriale e frustrazioni casalinghe.
Un’America reale, pre-digitale, pre-tutto. Proprio lì va a pescare la Cherry Red per la nuova compilation “You’re No Big Deal – Grunge, The U.S. Underground And Beyond 1984-1994“, con nomi noti, ma, come è tradizione dell’etichetta, anche nomi molto meno conosciuti.
Da quel buio viscerale, tra garage umidi, scantinati disordinati e palchi improvvisati nei sobborghi, alcune band iniziarono a deviare dal solco tracciato dai Pixies, dai Sonic Youth, dagli Hüsker Dü e dai Melvins. Riconobbero quella stessa strada, ne amarono la libertà espressiva, ma sentirono il bisogno di contorcere le loro visioni sonore, di sporcarle, di rallentarle, di trascinarle a forza nel fango. Nacque così un intreccio che oggi chiamiamo grunge, ma che allora non aveva nome: era ritenuto un miscuglio di punk e metal, ma senza virtuosismi, senza eroismi, senza glamour — solamente malessere, trance, oppressione, sudore.
Non era solo una reazione estetica: era una fuga dai ruggiti di plastica degli anni Ottanta, era un rifiuto del metal smagliante da televendita, era il rigetto totale delle cose “ben fatte”, era la voglia di far vivere il rock nella sua versione più sincera, più nuda, più organica, più onesta. Era il ritorno — inquieto ed allucinato — allo spirito degli anni tra la fine dei Sessanta e l’inizio dei Settanta: l’introspezione psichedelica, la libertà selvaggia, le canzoni che nascevano da i propri tormenti personali.
Ma questa volta con una visione più tenebrosa, più disillusa, più bruciante della realtà. La musica veniva filtrata attraverso la rassegnazione delle persone comuni, la povertà suburbana, le solitudini infinite della provincia americana. Le distorsioni erano sghembe, gli amplificatori sempre al massimo, i riverberi si mescolavano ai fumi delle droghe, come se la musica fosse l’unico modo per non soccombere ad un mondo che ti lasciava morire in silenzio.
Questo sottobosco sotterraneo non costruì solo uno stile: costruì una filosofia esistenziale. Una filosofia DIY, senza maestri, senza dogmi, senza supremazie. Una filosofia che non chiedeva niente a nessuna religione, che non si inginocchiava davanti a nessuna ideologia politica, che non aveva alcuna fiducia nelle economie che dichiaravano di salvarti e di preoccuparsi per te, mentre ti lasciamo, inesorabilmente, affogare.
Erano persone sole che compresero che, assieme, potevano fare rumore.
E fu questo rumore a smascherare l’America. Non quella da cartolina. Non quella dei super-eroi. Ma l’America reale: quella che lasciava e lascia morire i poveri per strada; quella che credeva e crede di essere santa, ma è piena di rabbia e di armi; quella che picchiava e picchia al buio chi ha la pelle del colore sbagliato; quella che odiava ed odia chi non si veste nel modo giusto, chi non parla nel modo giusto, chi non sorride nel modo giusto.
Il grunge, prima di diventare fenomeno globale, era una forma di contro-narrazione brutale: era dire al mondo che l’America non è il paese dei sogni, ma un luogo che può trasformare la vita in un incubo quotidiano. Era una rivolta — non veloce, non brillante, non “cool”, ma sanguinante, lenta, stanca, esattamente come la realtà che rappresentava.
Questa compilation, “You’re No Big Deal”, che vede anche le note di copertina scritte da Mark Arm dei Mudhoney, racconta ciò che spesso viene dimenticato: la parte “prima della storia”, la parte che non finisce sulle magliette, la parte fatta di band seminali che anticiparono, sorressero e diedero forma ai futuri giganti. Erano dei pazzi? O erano gli unici lucidi in un mondo che faceva di tutto per nasconderli?
Loro non avevano vergogna. Non avevano armature. Non avevano futuro. Avevano solo il rumore. E il rumore, a volte, è tutto ciò che serve per dire la verità. L’ultima grande rivolta analogica del rock non viveva nelle parole, ma nei feedback, nelle frasi criptiche, nelle corde spezzate, nei concerti nei bar di periferia, nella voglia di restare insieme anche solo per sopravvivere un’altra notte. E ora che quel mondo è scomparso, restano questi documenti brucianti: schegge di cielo grigio, pagine strappate, addii, mancati appuntamenti, e la sensazione che — per un attimo — qualcuno abbia davvero detto la verità.
Il grunge non ha salvato il mondo. Ma ha salvato chi lo ascoltava. E questo basta. E questo avanza. E questo — nella musica — è tutto.
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