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Jamie Woon – biografia, recensioni, streaming, discografia, foto :: OndaRock

Guardando Jamie Woon per la prima volta, le coordinate vanno un po’ a farsi benedire. Jamie è un figlio del mondo, quantomeno dell’Asia o del Sudamerica. “Mi hanno detto che sembro peruviano, nativo americano, messicano, spagnolo, giapponese, cinese”, racconta lui stesso in una vecchia intervista al Guardian. La difficoltà nell’inquadrare bene le sue origini è però solo un gioco di specchi, una banale curiosità etnica. “Se è la prima domanda che mi fanno, mi dà fastidio. Anch’io sono curioso di sapere da dove vengono le persone, ma può sembrare che ti giudichino in base al tuo aspetto. Non me lo chiederebbero, se non fossi meticcio”, aggiunge. Del resto, come dargli torto? Madre scozzese e padre cinese-malese, Woon è cresciuto tra mondi lontanissimi e culture altrettanto distanti, mantenendo al contempo ben saldi entrambi i piedi nell’universo musica. Nato il 29 marzo 1983 a New Malden, un sobborgo di Londra, Woon è figlio della cantante folk Mae McKenna, che fin da piccolo lo porta con sé mentre registra i cori per Kylie Minogue e lo lascia liberamente provare giorno e notte nel piccolo studio di registrazione casalingo, uno spazio formativo in cui l’adolescente Woon trascorre ore e ore a registrare la sua voce e a comporre le bozze delle sue prima canzoni. Anche gli zii di Jamie, Hugh e Ted, sono musicisti, noti perlopiù come membri dell’Alex Harvey Band. Woon inizia però a fare sul serio negli anni in cui frequenta la Brit School, la stessa scuola che ha visto crescere talenti come Amy Winehouse e Adele. Terminati gli studi, la strada maestra è indicata soprattutto dalla musica soul e dall’elettronica di frontiera in voga in quegli anni nel Regno Unito, in particolare la dubstep del catalogo Hyperdub e di un ancora sconosciutissimo Burial, con il quale Woon co-sigla nel 2010 uno dei suoi rari successi “commerciali”, “Night Air”, contenuta nell’abbagliante album di esordio del 2011, Mirrorwriting

jamie2201_01E’ una notorietà che conferma le potenzialità espresse nel 2007 con il singolo “Wayfaring Stranger”, il cui remix dell’amico Burial ne amplifica l’anima pulsante. Prove generali per la lunghissima gestazione di un debutto discografico al quale Woon si dedica per ben tre lunghi anni, condividendo peraltro una casa con i musicisti del Portico Quartet a Clapton, nell’East London, lavorando mesi sul McBook e registrando le voci allo studio The Way di Hackney, prima di trascorrere altri due mesi in un cottage a Trevone, in Cornovaglia, dove registra di tutto: clic e battiti sui mobili in vimini e il rumore delle pietre di un ruscello trasformato per l’occasione in rullante. Le stravaganti trovate di Woon, che ricordano quelle in studio dei Queen nel 1975, sono una costante nella sua carriera. Tre anni dunque separano “Wayfaring Stranger” da “Night Air”, primo singolo estratto da Mirrorwriting, esordio al fulmicotone del ventisettenne Woon. Tre anni in cui il ragazzo rimane fermo ad annusare i vari andazzi in terra d’Albione prima di sganciare dodici assi dalla manica, incuneandosi come un vampiro nei localini dubstep-garage sparsi in tutta Londra, ed entrando lentamente in contatto con il micromondo notturno della dubstep al quale strizza l’occhio per dare ritmo ai suoi colpi, in una fusione che scotta e genera condensazioni dall’imprinting sonoro unico e irresistibile. Il contrasto tra le varie torsioni armoniche e le suadenti linee melodiche di Woon genera così una improvvisa ondata di calore, ipnotizzando sensi e anima. Fascinazioni neo-soul à-la Timberlake proiettate su variazioni percussive ukgarage: Mirrorwriting mostra quanto sia inarrestabile l’ascesa di un fenomeno musicale in evoluzione esponenziale. E se il principio fu “Archangel“, l’arrivo, l’avvenuta mutazione è tutta da gustare in “Gravity”: svolazzi improvvisi di chitarra in scia Michael Hedges adagiati su pulsazioni dubstep e l’ugola ardente di Woon a recar conforto. La già citata “Night Air” introduce l’album, il suo crescendo è emblematico e rappresentativo, il suo particolare clima, lo stato d’animo che racconta, permea tutto il lavoro. Si tratta di un sentiero percorso in parte anche da James Blake, altra neo-stella del soul-step.

“Feel that night air flowing through me”… Notte, come zona franca, notte la cui sinuosa e silenziosa magia ridesta e inquieta l’autore, che da essa stilla una poesia sgomenta e dolce di confessioni, dolcezze e lamenti; si coglie ispirazione e magia non dalla luce diurna, ma dall’oscuro e indistinguibile abisso notturno. Una notte incantata e sospesa dirige l’ispirazione: una notte imbevuta di luce passionale, lastricata di corsie di archi e di tastiere dalle fogge ardenti. Corsie in cui i suoni digitali scorrono come luci di rivelazione. E, quasi mimando quella quiete, Woon affida l’interpretazione al pudore di una voce emozionale, bollente e riservata. Il canto è un sospiro, un brivido che incorpora la frenesia dalle ore di luce riponendola nel balsamo del discreto rifugio della notte (“Daylight fills my heart with sadness/ And only silent skies can sooth me”). I colori chiari di questi suoni echeggiano nell’aria, nell’atmosfera; risplendono a contrasto, rimbombando nell’oscurità. Ed è così che dalla desolazione, muove e s’accende una smania d’amore, sospesa tra distruzione e attrazione.
Inusitato senso “blues”, notte come scampo, come discorso privato, come strazio romantico. In questo, Mirrorwriting sembra ricordare l’opera di debutto solista di uno dei padri della house, Larry Heard (Mr. Fingers “Introduction”, Mca, 1992). Ma non solo. Woon incarna una nuova forma di seduzione, attraverso la quale il nichilismo metropolitano palesato dai toni cupi del dubstep fonde all’unisono con la carica ammaliante, eccitante e confortevole dell’r’n’b più luminoso del mainstream odierno. Un piccolo grande miracolo a cui però segue una prima lunghissima pausa. E’ infatti la Cina ad attirare l’attenzione di Woon dopo un estenuante primo tour. Il richiamo delle origini paterne si fa sentire nel ventottenne cantautore londinese: “Sono grato per l’opportunità di vivere e lavorare su nuova musica in Cina. Pur conoscendo così poco la musica cinese, sono entusiasta di entrare in contatto con l’antica città di Xi’an e la sua attuale scena musicale, e di avviare uno scambio reciproco di musica, nuova e antica. Ho intenzione di scrivere nuove canzoni e registrazioni e sono aperto a collaborare con la gente della città”, dichiara un entusiasta Woon a Prs Foundation. L’abbraccio orientale giunge dopo essere stato inserito nella lista “New Band Of The Day” del Guardian, e quattro settimane dopo nella playlist di Radio 1 e in cima alla classifica dei “Sounds of 2011” della BBC a inizio anno. La scelta di trasferirsi per un po’ in Cina servirà per ricarburare e fare quadrato.

jamie_3_220Trascorrono tuttavia quattro anni prima che Jamie Woon rimetta piede in uno studio di registrazione. Quattro lunghissimi anni in cui il ragazzo diventa uomo. Difatti, la prima impressione che si ha ascoltando Making Time secondo Lp per il songwriter inglese, è quella di un musicista incredibilmente maturo e sicuro dei propri mezzi. Via dunque gran parte della patina elettronica post-dubstep presente nel passato, per dare spazio a una strumentazione più ricca, elegante e concisa. Contrabbasso, bonghi e fiati fungono da contraltare a una formula r’n’b che strizza l’occhio in più di un’occasione alla musica soul più elegante e a certo jazz da camera. A seguire il buon Jamie in cabina di regia è l’attento producer Alex Dromgoole aka Lexxx, ben noto agli addetti ai lavori per aver già collaborato in passato con BjorkMadonnaGwen Stefani e Goldfrapp. Making Time, come da titolo, è un album in cui lo scorrere del tempo assume una centralità assoluta nei testi e nelle melodie, spesso avvolte in un coagulo emotivo di profonda nostalgia, tra prese di coscienza più o meno dense di malinconia e omaggi incondizionati ai propri trascorsi, esposti qua e là con la grazia di chi ne apprezza i dettagli e le tante sfumature ritenute meno importanti solo in apparenza, fondamentali nel tracciare l’effettivo ricordo emotivo e un’acquisita consapevolezza del proprio cammino. Si prenda ad esempio l’introduttiva “Message” (“I have to say that it was all I could do to decide/ When I was with it I was playing ahead of the time/ Made a start and I was walking to weather the storm/ But if you look up and you stop”), musicalmente posta a metà tra Bill Whiters e David Sylvian. Stesso dicasi della flemmatica e oscura “Lament”, che pare uscita da uno dei primi dischi solisti dell’ex-Japan, sia per l’atmosfera dimessa, sia per il peso del contrabbasso posto in prima linea, a rinvigorire quel mood evocativo di mistero e profonda inquietudine. Incalzato sulla lunga gestazione del disco, Woon a Flush dichiara: “Non avevo fretta, volevo solo sentire di avere qualcosa di nuovo da dire e di aver trovato le persone giuste”. Una rispota secca che in futuro troverà nuova linfa, confermando l’approccio fuori dal tempo del cantautore. Parole che attestano un pensiero già espresso su The Badger nel 2011: “L’obiettivo è fare belle canzoni. In passato ho ricevuto offerte che avrebbero significato un sacco di soldi e fama, quando non avevo abbastanza belle canzoni o non avevo ancora definito il mio sound. Quindi mi sono semplicemente preso il mio tempo. Non c’è niente di peggio che finire per odiare i propri dischi”.

Le trame ritmiche e acustiche di “Forgiven” confermano ulteriormente la strada intrapresa, mentre l’ospite di turno, l’americano Willy Mason, è semplicemente perfetto nell’interpretare la meditativa ed estatica riflessione temporale di “Celebration”, coadiuvata in coro dallo stesso Woon, che intona il ritornello centrale del brano con parole semplici e che lasciano poco spazio a ulteriori interpretazioni: “Making time on the rhythm/ This one’s mine all for giving/ Feeling fine for the living/ Mmm”. La morbidissima ballad acustica “Little Wonder” riprende la struggente e intensa trama dell’indimenticabile “Waterfront” che chiudeva a meraviglia l’album di esordio, così come l’esotismo obliquo di “Thunder”, arricchito dal cantato conturbato e sfuggente di Woon, evidenzia ancora una volta la cifra stilistica dell’album, la quale, a differenza del suo illustre predecessore, rinuncia in gran parte al sostegno virtuoso dell’elettronica. Making Time è un disco suonato con la mente e il cuore di un artigiano del soul che affronta il secondo tempo della propria vita, e della propria carriera artistica, forte di un background strumentale di assoluta garanzia. Mancano di certo le potenziali hit presenti nell’insuperato Mirrorwriting e mancano i guizzi soul-step del primo passato. Tuttavia, resta immutata la grazia melodica e rinvigorita a dovere la sostanza acustica. E dopo? Silenzio. Tanto, tantissimo silenzio. Woon raddoppia il proprio tempo sabbatico tra un disco e l’altro e torna dieci anni dopo, quanto ormai tutto è cambiato. E lo fa a sorpresa, riapparendo nei radar come un naufrago di un’epoca recente eppure nei fatti lontanissima.

Per Jamie Woon il tempo deve comunque avere un’accezione in buona parte tibetana. Ma la pausa sabbatica di dieci anni, che ha portato il cantautore inglese lontano dal (suo) mondo, nasconde contorni tutt’altro che spirituali.
Woon resta per giorni, mesi e infine anni in balia del vuoto che incombe quando il foglio è ancora bianco e il plettro stenta a danzare tra le corde. Lo ha lasciato intendere lui stesso, in una delle recenti (e rare) apparizioni social, poi diluite in un comunicato stampa tanto stringato quanto chiaro, in particolare sul ruolo svolto dal produttore e amico Martin Terefe: “Ha visto le mie difficoltà e mi ha sostenuto. Mi ha in qualche modo convinto a fare un album: abbiamo fatto una canzone, poi un’altra, e quando ne avevamo dieci, abbiamo detto che era finalmente un disco. Non saprei davvero come spiegare questa musica. Per me è straordinario che esista”. Parole che sottintendono un miracolo inatteso, a quanto pare, per lo stesso Woon, fermo dai fasti di Making Time, con il quale ottenne a suo tempo anche una nomination al Mercury Prize, esibendosi dal vivo durante la cerimonia di premiazione del 2016.

jamie_220_finale3, 10, Why, When: se i titoli sono mappe, allora Woon è un pirata scarso, perché per quanto in apparenza criptica, l’alternanza di numeri (che indicano la data d’uscita), verbo e avverbio dice tutto sull’insperata riapparizione. I primi due singoli, “Heavy Going” e “A Velvet Rope”, fanno ancora meglio, mostrandoci che, al di là del tempo “perduto”, Jamie sarebbe tornato solo quando tutto avrebbe avuto di nuovo musicalmente senso: la prima è una ballata sospesa su melodie appena sylviane, con la quale Woon canta di fragilità immutabili e pianti alla luna; la seconda, invece, va ancora più in là, spostandosi con ritmi più lenti, in uno scenario dapprima lunare e infine liberatorio, dipinto dal synth che costruisce un ritornello irresistibile. La scelta di questi primi due brani non è affatto causale, a cominciare dal peso emotivo delle strofe e anche del potenziale impatto, tant’è che le altre due canzoni, rese inizialmente pubbliche, non si smarcano da tale eventualità: “When” con il suo brio da “Lady Luck”, mentre “Pulling On A Thread” attraverso gli archi sontuosi e il basso spumeggiante. Jamie sa che il dolore non finirà mai ed è lieto di accettarlo, quindi mira a non arrendersi a ciò che stava per condurlo in fondo al burrone, o nel “fondo del bicchiere”, parafrasando una sua metafora. Non è un caso che a un certo punto tiri in ballo massime filosofiche come “amor fati”.

La luce dei quattro “singoli” è, del resto, la stessa che irradia le altre sei fermate di un album praticamente senza cali, mosso dalla prima all’ultima nota da un’infinita voglia di rinascere e venirne finalmente a capo, soprattutto dai deliri di una mezza età che tutto storpia. Saltano così fuori invocazioni a tratti gospel in “All The Way”, poco prima del balletto sintetico di “Place N Time”. Sono canzoni suonate, cantate e prodotte con cura a dir poco certosina. E che confermano ancora una volta quanto sia maniacale Woon nel suo approccio alla musica, ereditato perlopiù dalla madre. 3, 10, Why, When si allontana dalle strutture più elaborate di Making Time e il rinato Jamie riesce a fare centro anche quando decide di agire per sottrazione, lasciandosi accompagnare “solo” da una drum machine e da una linea di synth in loop (“The Heart’s Mountain”). Accade lo stesso nei momenti più sfuggenti come “Ghost” o quando torna a galla la classe da cantore soul postmoderno (“What’s The Matter”). E questo la dice lunga sull’indiscussa (e intatta) maestria di un musicista ormai dato per spacciato e di cui quasi più nessuno credeva possibile il ritorno.

* Si ringrazia Fabio Russo per i contributi (“Mirrorwriting”)




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