Cultura

Approfondimenti – Soul e r&b sotto la superficie

Dal 1954 in cui Ray Charles incise “I’ve Got A Woman” – spesso considerato il primo prototipo di brano soul – ai giorni nostri sono trascorsi oltre settant’anni. Considerato poi che, tecnicamente, il termine r&b starebbe per rhythm and blues, la data d’inizio del filone “soul e r&b” andrebbe spostata ancora più indietro.
Possibile, in una selezione di una ventina di dischi, ripercorrene in modo soddisfacente la storia? Evidentemente no. E infatti non ci proveremo.

Di recente, Ondarock ha pubblicato una pagina intera di classifiche sul tema, con centinaia di dischi e artisti citati – dai nomi storici e immancabili quali Marvin Gaye, Stevie Wonder, Dusty Springfield e Nina Simone a classici moderni come Lauryn Hill, D’Angelo, Janelle Monaé, Erykah Badu, Sade. Una panoramica certamente non esaustiva, ma utile si spera come mappa introduttiva e fonte di stimoli per chi già si muove nel territorio con disinvoltura. In mezzo alla carrellata di pesi massimi, nelle liste compaiono anche tante figure meno in vista: personaggi non altrettanto ricordati, ma significativi per l’originalità e la compiutezza dei loro contributi. Normale che scorrendo l’elenco ci si presti poco caso, ma perdere l’occasione di scoprirli sarebbe un peccato.

Questo articolo nasce proprio per valorizzare alcuni di questi autori e capolavori dimenticati. Le scelte non rispondono a criteri ferrei ma sono frutto del desiderio di condivisione dei redattori partecipanti: tendenzialmente si è voluto dare spazio ad artisti che non fossero già trattati sul sito, ma c’è qualche eccezione.
Le proposte spaziano su otto decenni – dagli anni Cinquanta della prime hit di Smokey Robinson fino all’assoluta contemporaneità – e su più continenti: Nordamerica, Europa, Sudamerica, Asia… Soul e r&b, spesso identificati come espressione della sola eredità afroamericana, sono diventati un linguaggio trasversale alle culture, e un terreno fertile per innumerevoli commistioni creative. Speriamo che questa cernita e la playlist associata siano un valido spunto per lanciarsi all’esplorazione di nuovi, variegatissimi universi sonori.

niemen_dziwny1_01Niemen – Dziwny jest ten świat… (Polskie Nagrania Muza, 1967)
Con “Dziwny jest ten świat…”, Niemen affronta il soul di petto, in un paese – la Polonia – in cui nessuno fino a quel momento aveva osato. Non è un esercizio di stile, ma soul filtrato da un temperamento pieno di pathos e inquietudine. La voce graffia e implora, passando dal falsetto sofferente a improvvisi scoppi emotivi. È un cantante che sente davvero quello che sta dicendo e lo porta su un piano quasi febbrile. Il brano omonimo è una canzone di protesta appassionata, dove l’Hammond spiritato suonato dallo stesso Niemen convive con un’urgenza vocale che ricorda un pulpito gospel, immersa però in una malinconia slava riconoscibilissima. Altrove, l’influenza r&b emerge più evidente: linee di organo pulsanti, fiati in risposta, sezioni ritmiche tese e teatrali. Quando il disco entra su territori più pop beat, lo fa senza perdere profondità emotiva; quando si scalda, vibra come una band di club costretta a suonare dentro un teatro d’opera. È questa frizione — tra sentimento nero e gravità mitteleuropea — che fa funzionare tutto. (Francesco Inglima)

91nfiak5mql._uf10001000_ql80_1The Temptations – Psychedelic Shack (Tamla Motown, 1970)
Con “Psychedelic Shack” i Temptations fanno definitivamente esplodere la cornice del soul classico Motown. Lontani anni luce dagli abiti scintillanti e dalle coreografie impeccabili degli esordi, la band si tuffa nel caos colorato e paranoico della fine dei Sessanta. Il risultato è un disco che sembra riflettere in tempo reale l’America post-1968: psichedelia nera, funk elettrico, coscienza politica e misticismo urbano in un solo calderone. La regia è quella di Norman Whitfield, il vero demiurgo di questa fase: archi che si sciolgono in feedback, linee di basso che non smettono mai di pulsare, voci che si inseguono in un delirio corale dove il falsetto di Eddie Kendricks si fa quasi spirituale. La title-track è un manifesto: un invito a entrare in una “baracca psichedelica” dove tutto è distorto, esagerato, libero. È un album di passaggio, ma anche di rottura: prefigura la rivoluzione del soul politicizzato dei primi Settanta, e insieme conserva un’anima di pura curiosità sonora. “Psychedelic Shack” non è un disco di evasione: è il suono di una band che ha deciso di non restare ferma mentre il mondo brucia. (Francesco Inglima)

a1423430208_101Minnie Riperton – Come To My Garden (GRT, 1970)
Ci sono album importanti, ci sono album famosi, e poi ci sono album che sono semplicemente magici oltre ogni descrizione. Su carta, il debutto solista di Minnie Riperton, avvenuto nel 1970 dopo aver completato il tragitto con la band prog-soul/avantgarde Rotary Connection, offre un ponte con quello che sarà il successo commerciale di “Perfect Angel”, disco col quale tutti l’hanno conosciuta. Ma “Come To My Garden”, in verità, è molto di più: un sogno a occhi aperti, una fantasia barocca nella quale prog e classica si mescolano al soul con rara sintesi melodica, grazie anche ad una delle più inimitabili voci del Novecento, capace di glissare sopra quattro ottave con impressionante facilità. Tra carezze d’orchestra da camera, scoppi d’ottoni e percussioni latine, l’ascolto serpeggia tra mini-rapsodie (la celebre “Les Fleur”), ricchezze d’autore (“Completeness”), drammi cinematografici (la title track), complesse armonie dal gusto bacharachiano (“Rainy Day In Centerville”) e dolcezze di bossa nova (“Memory”). Non troverete altri dischi come questo. (Damiano Pandolfini)

images_essra1.Essra Mohawk – Primordial Lovers (Reprise, 1970)
Fra Tim Buckley e Laura Nyro, fra Linda Perhacs Joni Mitchell e Judee Sill… Solo triangolando fra riferimenti veri o presunti si potrebbero riempire righe e righe, senza comunque arrivare al cuore dell’unicità di “Primordial Lovers”. Un disco di soul psichedelico e progressivo dove il taglio dominante è quello del songwriting libero e dilatato, con forme aperte e costruzioni pianistiche che ricordano molto più il coevo baroque folk che la spinta percussiva del rhythm’n’blues. Eppure, nella voce dell’allora ventiduenne Sandra Elayne Hurvitz – già autrice di pezzi per Shangri-Las e Vanilla Fudge, e legata a Mothers Of Invention e Procol Harum – sono le inflessioni delle grandi soulsinger a emergere come rimando principale: tanto nella lenta e camaleontica “Looking Forward To The Dawn” quanto nelle movenze folk-jazz di “It’s Up To Me” o nella woodstockiana “Spiral”, estensione vocale e versatilità interpretativa diventano porte d’accesso per un’idea di soul come linguaggio spirituale, perennemente sospeso fra estasi e confessione. (Marco Sgrignoli)

61t92jplyl._uf10001000_ql80_1Timmy Thomas – Why Can’t We Live Together (Glades, 1972)
Non sono tanti i dischi che possono fregiarsi di aver “inventato” qualcosa. Ma secondo gli annali, “Why Can’t We Live Together” fu il primo album soul registrato interamente con l’ausilio di una drum machine, aprendo quindi un precedente per tutto quello che, in futuro, risponderà al nome di synth-soul. Timmy fa tutto da solo, impiegando giusto un organo sopra al beat pre-programmato, mentre la sua calda interpretazione vocale contrasta con l’asciutto minimalismo dell’opera. Il risultato è un album fuori dal tempo, talmente semplice ed evanescente da sembrare spettrale, eppure ogni singolo suono riempie esattamente lo spazio necessario all’interno del mix. Ma il lavoro s’inserisce anche nel contesto storico del periodo, in particolare i movimenti pacifisti post-sessantottini, tramite riflessioni sociali, come “Cold Cold People” e “Dizzy Dizzy World”, e altri più espliciti, come “In The Beginning”, “Rainbow Power” e soprattutto la celebre title track – quest’ultima smercia un milione di copie in America e sarà oggetto di una cover di Sade nel decennio successivo. Contiene anche una creativa cover di “The First Time I Ever Saw Your Face”, nota per essere la celebre “firma” di Roberta Flack. (Damiano Pandolfini)

81hcjbp6lol._uf10001000_ql80_1Aretha Franklin – Young, Gifted And Black (Atlantic, 1972)
Da sempre Aretha Franklin non si limita a interpretare: modifica radicalmente i brani altrui, ne scrive di propri, orienta il suono e l’atmosfera dei propri dischi. In “Young, Gifted And Black” questo avviene forse anche più che in passato, benché non sia il suo lavoro più celebrato. È un album sereno, forse anche grazie allo stabilizzarsi della sua vita privata, dopo la fine della contrastata relazione col manager e compagno Ted White, un album contenente un soul caldo e nitido, che alterna energia e raccoglimento vivendo di contrasti felici: l’incedere funk e ipnotico di “Rock Steady” si affianca al tono sospeso di “Day Dreaming”, in cui voce e Fender Rhodes si rincorrono per l’appunto come in un sogno, e all’arrangiamento spoglio di “First Snow in Kokomo”, in compaiono solo il piano e la voce di Aretha. Un disco che restituisce una Franklin meno monumentale ma più vicina, pienamente consapevole dei propri mezzi e della propria libertà. (Francesco Inglima, Federico Romagnoli)

71hwdyalvsl._uf8941000_ql80_1_01Labelle – Nightbirds (Epic, 1974)
Quando le Labelle arrivano a registrare “Nightbirds” sono ormai delle veterane, sulla scena sin dal 1961. Inizialmente note come Blue Belles, nacquero dalla fusione fra due gruppi vocali femminili, le Ordettes di Philadelphia e le Del-Capris di Trenton (New Yersey). Dopo qualche cambio di formazione, il gruppo viene ridotto a trio e stabilizza la propria formazione con Patti LaBelle, Sarah Dash e Nona Hendryx: pian piano, quest’ultima si afferma come principale autrice del loro materiale. Così, quando la sua penna incrocia un produttore del calibro di Allen Toussaint, ne esce un album perfetto, in cui soul, funk rock e i primi vagiti della disco si intrecciano in brani incendiari come “Are You Lonely?” e “Space Children”. In apertura c’è “Lady Marmalade”, cover degli Eleventh Hour di Bob Crewe e Kenny Nolan, che muta dal funk psichedelico della versione originale nell’inno da pista che tutti conoscono, con l’aggiunta del celebre incipit “hey sister, go sister, soul sister, go sister”. (Federico Romagnoli)

a0805632664_101Labi Siffre – Remember My Song (Emi, 1975)
Il ritmo della prima canzone lo conoscete tutti. Magari non ve ne accorgete subito, con quell’intro funk/orchestrale così avvolgente e settantiana. Ma arrivate al minuto 2:10 e… è “My Name Is”! Con il sample carpito da Eminem e Dr. Dre, il britannico Labi Siffre deve averci guadagnato una pensione più che decorosa. Giusta ricompensa per un percorso artistico fatto di molta classe e scelte coraggiose. Classe 1945, di origine barbadiane e nigeriane, non ha avuto bisogno di dichiarazioni perché il mondo si accorgesse che fosse nero, ma ci ha tenuto a far sapere – quando affermarlo era tutt’altro che safe – di essere anche ateo e omosessuale. Dopo gli esordi fra folk, baroque pop e cantautorato (con pezzi memorabili come “Bless The Telephone”) Siffre prende la strada del soul e realizza nel 1975 “Remember My Song”: un flop sul piano delle vendite, ma un pieno centro per la capacità di coniugare la vena di songwriter raffinato e introspettivo con un nuovo ed elegantissimo estro fusion e sinfonico. Evitando i cliché smooth e dando forma a un suono notturno che non rinuncia a graffiare. (Marco Sgrignoli)


maarit__siivet_saan1Maarit – Siivet Saan (Dig It, 1978)
Chi arriva a “Siivet saan” aspettandosi un tentativo nordico di inseguire il soul americano rimane spiazzato: Maarit Hurmerinta non copia, metabolizza. Voce calda, timbro morbido, niente rigidità da scuola scandinava: sembra uscita più da un club fumoso che da un conservatorio. Nata a Helsinki ma con sangue italo-finlandese – il nonno Michele Orlando era un musicista affermato – Maarit emerge nei primi anni Settanta mostrando di saper tenere insieme con disinvoltura sensibilità pop e vena soul. L’apertura con “Jäätelökesä” è già una dichiarazione d’intenti: funk soul vellutato, quasi un city pop, firmato dal marito e chitarrista Sami Hurmerinta. Il resto del disco alterna alcune cover soul tradotte in finlandese – interpretate con gusto e misura – e brani originali che rappresentano il vero valore aggiunto: qui l’estetica blue-eyed soul diventa più intima e personale, il groove si scalda, e la melodia prende strade che profumano di Nord senza mai raffreddarsi. Nessun manierismo, nessun cosplay Motown: solo classe naturale, arrangiamenti puliti e un modo di far respirare le frasi che suona ancora oggi sorprendentemente fresco. (Francesco Inglima)

71lzvtyowl._uf10001000_ql80_1The Nitecaps – Go To The Line (Sire, 1983)
New wave, soul, power-pop: non è facile imbattersi in una triade del genere, se non – forse – in contesti affini a un sophisti-pop spesso assai lezioso ed esangue nelle emozioni evocate. Tutta un’altra musica quella dei newyorkesi Nitecaps, autori di un unico album capace di fondere l’energia limpida e angolare delle chitarre wavy e la rigogliosa euforia degli arrangiamenti Motown. Fra ottoni guizzanti, botta-risposta melodici e ritmici, scatti chitarra-basso-batteria spesso a un passo dal punk-funk (senza però mai ricadere nell’uno o nell’altro), le dieci tracce dell’album sono una girandola in cui la New York afroamericana incontra quella del CBGB, delle esibizioni dei Cars. di Richard Hell & The Voidoids (in cui militò come bassista l’estroso chitarrista della band, Jahn Xavier). (Marco Sgrignoli)


5159dsqzqyl._uxnan_fmjpg_ql85_1Tim Maia – O descobridor dos sete mares (Lança, 1983)
Tim Maia, figura travolgente della musica brasiliana, noto tanto per la voce titanica quanto per un carattere irruente e indipendente, arriva a “O Descobridor dos Sete Mares” in piena maturità artistica: un interprete che non deve più dimostrare nulla a nessuno, libero di muoversi fra funk, soul e romantiche ballate senza perdere identità. L’album esplode sin dal primo ascolto con il vocione potente di Maia, tra funk, boogie, soul e inflessioni brasileire. La title track è un piccolo manifesto, con la band Vitória Régia che risponde ad ogni frase vocale e fa scorrere l’energia musicale come un fiume impetuoso: immediata, travolgente, ma anche precisa nel modo in cui Maia controlla ritmo e atmosfera. Il disco alterna momenti ballabili — come “Terapêutica do Grito” e “Pecado Capital” — a levigatezze soul come “Me Dê Motivos” o “Rio Mon Amour”, mostrando un artista poliedrico: capace di scuotere e trascinare, ma al tempo stesso emozionare con fraseggi delicati. È soul tropicale senza imitazioni, con un calore umano e una sincerità interpretativa che solo lui sapeva dare. (Francesco Inglima)

ab67616d00001e02cbb001047ddb6800d839cbcf1_01.Tina Turner – Private Dancer (Capitol, 1984)
Con una carriera da oltre 100 milioni di dischi venduti e fan dichiarati del calibro di David Bowie e Mick Jagger, è difficile ritenere Tina Turner un’artista sottovalutata: tuttavia, di rado i suoi dischi compaiono nelle liste dei migliori di una determinata epoca o anche solo del proprio settore. Si tratta insomma del tipico caso in cui il pubblico ha avuto l’occhio più lungo della critica. Eppure “Private Dancer” – il disco del suo rilancio dopo un periodo di declino commerciale, dovuto anche alla separazione da suo marito Ike – avrebbe tutti i crismi per essere un’opera di culto, in particolare in questi tempi di poptimism che hanno portato molti a considerare fondamentali anche nomi fino a qualche tempo fa improponibili agli ascoltatori più esigenti: basti pensare a Whitney Houston o Mariah Carey. E a meno di non volerle ritenere artisticamente superiori a Turner, cosa che francamente richiederebbe un notevole sforzo d’immaginazione, sarebbe forse il caso di porre rimedio a un evidente torto. (Federico Romagnoli)


91z6800tysl._uf10001000_ql80_1Nona Hendryx – Skin Diver (Private, 1989)
Che cosa succede se, sulla coda degli anni Ottanta, un terzo del girl group Labelle (noto al mondo soprattutto per la hit “Lady Marmalade” del 1974) si mette in affari con un terzo dei Tangerine Dream, pionieri indiscussi dell’universo sintetico per tutti gli anni Settanta e buona parte del decennio successivo? “Skin Diver” nasce dall’incontro fra la vocalist e tastierista Nona Hendryx e Peter Baumann, ed esce proprio sulla label fondata da quest’ultimo, Private, legata dal 1986 alla regina delle etichette new age, Windham Hill. Il risultato di questa sorprendente joint venture è, manco a dirlo, assolutamente unico. Un art-pop digitalissimo e caleidoscopico, cosmico senza cavalcare nebbie e svuotamenti siderali, ambientale senza cadere in cliché anti-ritmici – e combinato all’espressività chiaramente soulful della cantante e compositrice. Come se il Peter Gabriel di “So” e “Us”, beninteso in versione femminile, avesse deciso di fregarsene delle classifiche e inseguire l’astratta intimità di Jane Siberry in “The Walking”. O Laurie Anderson, dopo “Mr. Heartbreak”, avesse abbandonato la compostezza spoken word per svelare un’inattesa versatilità canora. Fra chitarre taglienti e beat programmati, freddo e caldo si compenetrano quasi anticipando il fascino vulcanico di Björk. Una perla da riscoprire. (Marco Sgrignoli)

813kviohgml._uf10001000_ql80_1Lewis Taylor – Lewis Taylor (Island, 1996)
Può un disco suonare classico e moderno, notturno e luminoso, pacato e febbrile allo stesso tempo? L’esordio solistico del trentenne britannico Lewis Taylor riesce a essere tutto questo con estrema naturalezza. E una raffinatezza notevole. Ben informato del blues, del funk, ma anche del coevo downtempo e dello sguardo caleidoscopico del progressive soul Sessanta-Settanta, il cantautore e chitarrista debutta con uno stile già maturo e personale, quasi un ponte che – saltando a piè pari il decennio Ottanta – connette gli anni d’oro della soul music e l’era dell’acid jazz e del nu-soul. In “Right” il passo behind the beat sembra presagire le invenzoni di D’Angelo di “Voodoo”, ma quasi ovunque nel disco i timbri dell’elettrica portano in campi decisamente hendrixianiTaylor ha suonato come touring musician per gli acid rocker Edgar Broughton Band e si muove con disinvoltura in terreni taglienti e psichedelici – eppure, la ruvidità è sempre controbilanciata da disciplina ed eleganza. Una spinta alla sofisticatezza armonica che più delle volte si traduce in richiami gospel e toni vellutati e jazzy, ma in casi come “Bittersweet” prende colori addirittura natalizi. (Marco Sgrignoli)

600x600bf601Smokey Robinson & The Miracles – The Ultimate Collection (Motown, 1998)
Smokey Robinson è uno dei più importanti artisti nella storia della black music: in 67 anni di carriera, prima con i Miracles e poi come solista, ha attraversato le più grandi trasformazioni del soul, da quando il genere mosse i primi passi all’avvento delle tecnologie digitali degli anni Ottanta. Il suo primo singolo nella top 10 statunitense risale al 1960, l’ultimo al 1987: un lasso di tempo impressionante dati i cambiamenti avvenuti nel mezzo. Eppure, per paradosso, non ha mai prodotto un album universalmente celebrato (ci vanno vicini “Going To A Go-Go” del 1965 e “A Quiet Storm” del 1975, la cui considerazione è comunque inferiore a quella dei grandi classici del genere) e questo ne penalizza la figura presso gli ascoltatori di musica rock, molto legati a quel formato. Per rimediare, questa antologia del 1998 contiene venticinque singoli imperdibili del periodo Miracles (per completezza, vi potete abbinare quella uscita l’anno prima, col medesimo titolo, riguardante la carriera in proprio). (Federico Romagnoli)

716vqj1c86l._uf10001000_ql80_1Maxwell – Embrya (Columbia, 1998)
Probabilmente è già stato detto tutto di Maxwell, il principe del neo-soul che negli anni Novanta fece innamorare mezzo mondo con un sorriso – storica la sua versione di “This Woman’s Work” di Kate Bush durante l’MTV Unplugged, un momento che mandò il pubblico in corto-circuito. Tuttavia, è il suo secondo album di studio “Embrya” a mostrare al meglio lo scheletro sul quale si appoggia la poetica di un autore riconoscibile tra mille: morbido e subacqueo, fluttuante sopra le linee di basso più accattivanti del decennio, il lavoro scorre senza tregua tra momenti di pura poesia (“Drowndeep: Hula”, “Matrimony: Only You”, “Gravity: Pushing To Pull”) e singoli killer (“Luxury: Cococure”). Perché se è vero che gli anni Novanta furono una vera fucina per l’r&b più marpione, Maxwell, il giovane sognatore che scriveva canzoni mentra lavorava come cameriere a Manhattan, seppe creare qualcosa di speciale. Tutt’oggi, “Embrya” è un classico forse un po’ raro nel gran calderone del soul, ma irrinunciabile. (Damiano Pandolfini)

ab67616d0000b273eea7f306b44d5a55994ddf2f1.Spacek – Curvatia (Island, 1999)
Steve Spacek – all’anagrafe Steve White – si aggira da un pezzo per il sottobosco musicale britannico. Come solista di quando in quando si fa sentire (l’ultima volta è stato nel 2020 con “Houses”, in zona Uk bass), e in combo con l’ex-Global Communication Mark Pritchard aveva destato una certa attenzione con il progetto post-dubstep Africa Hitech, nel 2011. Il suo è da sempre un percorso sfuggente ma personale, sempre influenzato dai filoni del momento e al tempo stesso capace (senza forse farci troppo caso) di tener fermi alcuni tratti essenziali. Futurismo, contiguità con l’approccio soul, dilatazione psichedelica, e un’ossessione per l’elemento ritmico facilmente riassumibile in: più spezzato è, meglio è. Tutti aspetti già immediatamente percepibili in “Curvatia”, album d’esordio del terzetto Spacek di cui l’artista avrebbe poi conservato il (cog)nome d’arte. Nelle undici, flessuose tracce del disco frastagliamenti broken beat, nebulose di synth e vocalizzi nu-soul senza una chiara direzione – ma con un senso melodico sempre in primo piano – condensano in placidi gorghi funky/sci-fi dal flusso tanto erratico quanto affascinante. Un impasto cervellotico, molleggiante e a suo modo spirituale che anticipa di un bel pezzo l’estetica Brainfeeder dei vari Flying Lotus, Thundercat, Hiatus Kaiyote ecc. (Marco Sgrignoli)

ab67616d0000b273c6c4ab496aa375b5d888041c1.Misia – Kiss In The Sky (Rhythmedia Tribe, 2002)
Voce tra le più amate e apprezzate del panorama j-pop, tanto da ricevere l’onore di interpretare l’inno nazionale nella cerimonia d’apertura alle Olimpiadi di Tokyo, Misaki Ito in arte Misia è tra le principali portavoce dell’r&b made in Japan, artista dall’espressività completa e con l’America nell’anima, tradotta in album espansivi, emozionali, votati a un caleidoscopio di umori e direttrici sonore. Ultimo album di un impressionante filotto di numeri uno che dal 1998 al 2002 l’ha vista dominare in lungo e in largo le classifiche giapponesi al fianco di Hikaru Utada e Mai Kuraki, “Kiss In The Sky” è il progetto di più ampio respiro della paroliera di Fukuoka, quello che tiene a bada le tentazioni da balladeer che hanno dominato altri suoi progetti, e quello che mette in mostra la grana di un r&b esplosivo, funky al punto giusto (“Destiny’s Rule”, “Taiyou ga iru kara”) ma forte di brillanti sviate verso il hip-hop-soul di estrazione Mary J Blige (“Over Bit”) o di luminose contaminazioni jazzy al confine con i crocevia stilistici della connazionale UA (“Kaze ni fukarete”). Su tutto si staglia la voce di Misia, soulful come da dettami del genere, dotata però di una spinta propulsiva e di un’ampiezza che sa personalizzare anche il più lineare dei momenti, renderlo partecipe di una passione infinita. So don’t stop music, hey Mr Dj! (Vassilios Karagiannis)


41cpknoa8l._uxnan_fmjpg_ql85_1I-Wolf – Soul Strata (Klein, 2002)
Questo è un disco trip hop, con elementi drum’n’bass e coloriture dark-jazz. Breakbeat, insomma. E che ci fa in una rassegna di album soul/r&b? Beh, ascoltate la voce. Per l’esordio del suo progetto da producer, il tedesco Wolfgang Schlögl ha chiamato il californiano Damon Aaron (cantante nella big band Build An Ark) e l’austriaco di origini caraibiche Ken Cesár Sampson (che avrebbe poi concorso per il suo paese all’Eurovision nel 2018). L’esito è uno sposalizio felicissimo di inquietudini suburbane e sinuosità nu-soul, ritmi tritacervello e slanci spirituali, con un equilibrio yin&yang davvero difficile da ritrovare altrove. Fra bassi ruvidi e scorribande in area dub/hip-hop, anche un’ospitata dei cult rapper Dälek (in “Careful Who You Love). Da non perdere. (Marco Sgrignoli)

8771Ken Hirai – Life Is… (DefSTAR, 2003)
Ken Hirai, il falsetto più famoso di Giappone, il funk-man folgorato sulla strada dell’r&b, il romantico senza speranze, il sex symbol sornione, e chi più ne ha più ne metta. Nel corso di una carriera che ha di recente compiuto il trentennale, il cantautore di Osaka ha perlustrato in lungo e largo le forme e le attitudini della black music, derivandone una lettura rispettosa dei capostipiti ma adattata alla perfezione ai gusti pop del pubblico di casa. Pubblicato nel 2003, “Life Is…” è il progetto che meglio riassume le varie tendenze che hanno animato il percorso di Hirai, quello con la produzione più articolata e forbita, che alterna futuribili parentesi à-la Neptunes (“Revolver”) a nervose esplorazioni da fine millennio (“Somebody’s Girl”), la voluttà del migliore George Michael (lo slow-funk di “Come Back”) a secchi stacchi hi-fi in fascia broken beat (“I’m So Drunk”). Tra una ballata e l’altra vi è pure l’occasione per un intrigante motivetto bebop (“Sekai de ichiban kimi ga suki?”). Tutto il cuore dell’r&b in un album elettrico e sensuale. (Vassilios Karagiannis)

r263942134643987528831Alice Russell – Under The Munka Moon (Tru Thoughts, 2004)
Che gli inglesi avessero un feeling tutto particolare con il soul non è certo cosa nuova. Ma nei primi anni Duemila, dagli anfratti hippie di una Brighton a colori vintage, una bionda cantautrice dalla voce inaspettatamente potente metteva a punto uno stile che ha fatto scuola – soul sì, ma mescolato con basi hip-hop, funk, jazz, lounge e samba. I suoi primi singoli e collaborazioni furono poi raccolti in “Under The Munka Moon”, una compilation di debutto variegata ma sorprendentemente coerente, tutt’oggi punto di riferimento di una scena che ha visto fiorire nomi rinomati in tutto il mondo, come Amy Winehouse, Adele, Paloma Faith e Lianne La Havas. Impossibile non lasciarsi irretire da “Sweet Is The Air”, “Peace Reside” e la celebre “Hurry On Now”, o sentire la terra che vibra sotto ai piedi con l’acustica “Tired Little One”. Di diritto tra quei dischi che probabilmente non avete mai sentito, ma che vi apriranno un mondo. (Damiano Pandolfini)

71rpztbwgl._uf10001000_ql80_1Crystal Kay – Call Me Miss… (Epic, 2006)
Enfant prodige della scena r&b nipponica (il debutto nel 1999 a neanche quattordici anni), figlia di immigrati dalla Corea e dagli Stati Uniti, Crystal Kay Williams porta in Giappone un modo di interpretare il genere profondamente ispirato da figure quali Mariah Carey e Brandy, vibrante nei suoi aspetti più soulful e foriero di un’energia che la produzione amplifica in mille diramazioni. Sesto album in carriera, “Call Me Miss…” è il disco che vede approfondire le peculiarità elettroniche di un progetto quale “4Real” in forme più mature e rilassate, in canzoni tra le più impattanti del suo repertorio (“Kirakuni”, prodotta da Terry Lewis e Jimmy Jam, è destinata a diventare uno dei classici del genere) e grande sottigliezza espressiva, quella che il carattere coming-of-age dell’album cerca di esplicitare senza troppi sprechi d’ugola. Felpato e scintillante, un album tra i più consapevoli della stagione d’oro dell’r&b giapponese. (Vassilios Karagiannis)

r5421412139293210813231Jasmine – Gold (Onenation, 2010)
J-r&b, atto finale. Dopo quindici anni in cui la scena giapponese si è imposta come contraltare asiatico alla sorella maggiore americana, la stanchezza ha cominciato a presentare il conto e portare all’uscita di progetti fatti in copia-carbone, figli delle stesse scelte produttive e di decisioni prive di nerbo. Pubblicato nel 2011 dopo una lunga trafila di singoli contraddistinti da precise scelte cromatiche e sonore, “Gold” di Jasmine si pone come ultimo progetto della lunga stagione urban a presentare un’autrice dotata del giusto nerbo e carattere, a giocare con personalità con le madri putative (Hikaru Utada in primis) filtrandole attraverso una più moderna lente elettronica (“This Is Not A Game”). Non mancano episodi vintagisti (“Jealous” la migliore impressione di Mary J Blige mai registrata), frangenti di purissimo camp (il pop-rock gradasso di “Clubbin”) e levigate jam funk-soul (“Koi”), a completamento di un disco che esplora la storia e le radici dell’urban giapponese distillandone l’essenza più pura. (Vassilios Karagiannis)

81qt8hrpbtl._uf10001000_ql80_1_01Miguel – Kaleidoscope Dream (Rca, 2012)
Facile pensare al soul come un genere ormai vecchio e ampiamente storicizzato. Ma ogni tanto può ancora avvenire un miracolo; nel 2012, Miguel Jontel Pimientes seppe creare qualcosa di raro nell’era streaming: un vero e proprio long playing, classico nelle intenzioni ma personale nell’esecuzione, moderno nel suono ma scritto e arrangiato con i crismi dei grandi del passato. Il segreto sta in una struttura chitarristica rock/blues, perfetta per le corde allupate e un po’ tenebrose dell’autore, e l’impiego di una palpabile ma mai invasiva elettronica tenuta in sottofondo. Trainato da un singolo del calibro di “Adorn”, piccolo classico moderno, “Kaleidoscope Dream” è un ascolto notturno e fluorescente, condotto senza un singolo punto debole. Che siano le pulsanti “Use Me” e “The Thrill”, le imploranti “Do You…” e “How Many Drinks”, naufragi psych come “Candles In the Sun” e synthwave in “…All”, il lavoro graffia e seduce col cuore in mano ma non scade mai nel banale, perché Miguel, sorta di Lothario con gli occhiali da sole, interpreta con classe infinita, anche quando, in preda all’ormone più incontrollabile, sentenzia: “Pussy In Mine”. (Damiano Pandolfini)

images1_primary.Primary – Primary And The Messengers (Amoeba Culture, 2012)
La figura del producer-mastermind che coordina un fitto manipolo di collaboratori vocali è prassi diffusa in materia di hip-hop e dance. Anche un Paese come la Corea del Sud non fa in tal senso eccezione, e Choi Dong-Hoon, meglio conosciuto come Primary, è tra le figure che per prime hanno sfruttato la loro abilità alla cabina di regia per proporsi come sagace lettore dello zeitgeist pop dei suoi tempi. In un doppio album originariamente uscito a scaglioni, il produttore dà vita ad un carosello dove ritmi hip-hop, ottoni jazzy e cadenze funk si offrono alle letture dei suoi tanti messaggeri, in un girotondo che alterna agilmente i contributi rap di giganti della scena coreana quali Zion.T e Paloalto al più felpato adattamento di Deez e Jinsil. Ne deriva un progetto poliedrico, dotato di ironia e morbidezza, capace di brillanti numeri swingati, vintagismi sintetici, riposizionamenti r&b che guardano ora alla piacioneria di Usher ora al carattere ricombinante del padre putativo Seo Taiji. Tutta la forza del k-urban di inizio anni Dieci in settanta golosissimi minuti. (Vassilios Karagiannis)

a0160904032_101Xenia Rubinos – Black Terry Cat (Anti, 2016)
Quanti artisti conoscete, capaci di frullare in uno stesso album – anzi, in uno stesso pezzo! – generi agli antipodi come: funk, math-rock, r&b, avant-prog? Il tutto in un contesto vocale di chiara matrice soul? Così descritto, il fritto misto stilistico della statunitense Xenia Rubinos può apparire uno di quei guazzabugli fini a se stessi che magari sorprendono al primo impatto, ma poi rapidamente mostrano i propri limiti con gli ascolti successivi. Invece accade proprio il contrario. Se a colpire inizialmente è soprattutto il carattere “what the fuck!?” delle commistioni, i riascolti indotti dal loro magnetismo non fanno che portare alla luce la proteiforme compiutezza delle composizioni. Ispirata a suo dire da Mariah Carey, Missy Elliott e dalla salsa revoluccion della Fania Records, ma forse più affine nello spirito a Esperanza Spalding o al genio poliedrico di Hermeto Pascoal, la giovane di origini caraibiche assembla quattordici tracce di fusion mirabolante ma lucidissima, dove ogni deviazione è parte di un disegno espressivo preciso. Un flusso caotico e teatrale che vive di contrasti, di collisioni e di rovesciamenti di tono – a cui, non paga, nel 2021 di “Una Rosa” aggiungerà tessiture Uk bass, post-dubstep e progressive electronic, dando forma a un altro inebriante capolavoro. (Marco Sgrignoli)

ab67616d0000b273cb90030b7637e255e397a70c1.Xênia França – Xenia (Noise!, 2018)
Il candomblé e l’afoxé della sua Bahia, l’eterno rinnovarsi della música popular brasileira, il jazz, le asimmetrie dell’elettronica e soprattutto il soul: la cantautrice Xênia França arriva nel 2017 con un album d’esordio che è un’autentica dichiarazione d’intenti, un pot-pourri dalle scansioni rade e dalla grande varietà espressiva, frutto di una personalizzazione convinta e appassionata delle tante direttrici sonore che ne hanno ispirato il percorso. Smaccatamente afrofuturista, ma con solide basi nei linguaggi brasiliani, con “Xenia” escogita un intricato meccanismo ritmico e vocale, che non ha mai bisogno di alzare i toni ma fa valere ad ogni battuta la sua presenza. Un pugno di acciaio avvolto in un guanto di velluto, abile nel gestire percussioni ancestrali e contemporaneità elettrica, nel muoversi all’interno dei meccanismi r&b contemporanei e conversare a tu per tu con i limpidi trascorsi del quiet storm. Alla ricerca della propria identità e del proprio spazio nel dibattito musicale, Xênia França ha scolpito alla prima la sua nicchia. (Vassilios Karagiannis)


a1839808880_161Terence, Etc. – V O R T E X (Brainfeeder, 2022)
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amba? Afrobeat? Folk, synth pop orchestrale, avant-prog? L’etichetta Brainfeeder fondata da Flying Lotus ha abituato a circa ogni genere di commistione stilistica, ma difficilmente può aver preparato i suoi appassionati a una creatura tanto eclettica quanto “Vortex”. Un nome in effetti quantomai appropriato per l’unico album a oggi di Terence Nance, producer e cineasta quarantenne che ispirandosi (come tutti?) a Stevie Wonder ha trasformato le sue demo chitarra-voicenote in visioni caleidoscopiche, fatte di originali escursioni armoniche e continui voltafaccia. Alcuni album sono unici e basta; altri – altrettanto unici – spingono invece l’ascoltatore a chiedersi: “ma perché non esiste un genere intero di cose così?”. Sorprendente che con “Vortex” nessuno abbia ancora raccolto la sfida. (Marco Sgrignoli)

 

01/11/2025




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