Siamo davvero pronti a Lux, il nuovo album di Rosalía?
Il problema di Lux, il nuovo album di Rosalía, è in parte anche nostro: riguarda la nostra capacità di recepire opere del genere in un’epoca così, asfittica, dove i musicisti – su tutti i grandissimi, anche solo a livello di numeri, come del resto è lei – non danno più l’impressione di voler fare qualcosa di grande, che rompa le regole, resti e che soprattutto spiazzi l’ascoltatore, alzando dunque la fatidica asticella e assumendosi però anche il rischio, s’intende, di deludere. È un discorso complesso, non ha senso lamentarsi che non ci sono più talenti mentre una volta là fuori era tutto un Lennon, Bowie eccetera; ma è legittimo riconoscere che c’è un sistema che promuove un approccio rivolto più alla conservazione, a una certa sicurezza (nostra, e degli artisti stessi). Poi però torna in scena Rosalía: con il precedente Motomami (2022) aveva ottenuto un successo globale, è diventata una popstar planetaria – Madonna tra le tante stravede per lei – e insomma, visti i tempi avrebbe potuto mettersi comoda; e invece, ecco Lux.
L’avrete già letto ovunque, lo ridiciamo in estrema sintesi: scordatevi il flamenco e la tradizione andalusa che la 33enne artista catalana ha innovato e diffuso grazie a influenze hip hop, reggaetton ed elettroniche che, è chiaro, maneggia come nessuna; Lux, invece, è un lavoro ampio che pesca dalla musica classica, barocca e dall’opera, almeno per stile e riferimenti estetici e sonori. Quattro atti, 15 canzoni (a cui se ne aggiungono tre nella versione fisica) e in generale la sensazione à la Walt Whitman di contenere moltitudini, con testi in 13 lingue, tra cui il siciliano e l’italiano stesso, nel brano Mio Cristo Piange Diamanti, ispirato agli ascolti di Pavarotti che sua madre le propinava da piccola (e forse pure uno dei più belli di tutto il lavoro). Il resto è un muoversi per il mondo, con infinite sessioni di Google Traslate (aiuto), in cui si è concentrata spesso più sulla musicalità delle parole in sé che sul loro vero significato.
Significato che, comunque, si può dedurre, tra una storia di rinascita sentimentale e una presa a piene mani dall’immaginario delle sante, per lei che non è cristiana praticante, non si riferisce al Dio cristiano, ma celebra e s’immedesima in sante come la stessa Santa Rosalia, patrona di Palermo, che rifiutò di sposarsi per farlo con Dio. Lapidaria lei, non a caso vestita come una suora in copertina, trafitta dalla luce dell’ispirazione (o quella divina): «Mi sono stancata di vedere la gente che fa riferimento alle celebrità e le celebrità che fanno riferimento ad altre celebrità. Mi interessano di più le sante». Il gioco è paradossale: se Motomami sembrava venuto dal futuro, con tutta quell’estetica femminista e post-umana che in parte metteva la stessa cantautrice nei panni di un avatar, con un suono elettrificato e spesso scarno, qui scava nei simboli del passato – senza riappropriazione, senza rivendicazione, solo con una sincera fascinazione – e in una musica profondamente umana, tra strumenti legati, di nuovo, alla tradizione e il ricorso alla London Symphonic Orchestra diretta da Daníel Bjarnason, con momenti intimi, quasi dei vuoti d’aria, ed esplosioni assortite di violini, viole e violoncelli, come fosse l’Aida. C’è tanto, tantissimo: carne e spirito, mentre l’atmosfera è spesso liturgica, sofferta, che pare grondare sangue.
Inutile girarci intorno: non è la Rosalía che ci sarebbe aspettati, ma un enorme scarto in avanti in termini di ambizioni, concept e il resto, per un’opera a suo stesso dire «impegnativa», che «metterà alla prova gli ascoltatori», insomma una di quelle mosse spiazzanti in stile anni Settanta, che oggi non si vedono più vedono appunto quasi più. E ben venga, certo. Non c’è un ritornello che sia uno, non ci sono hit, non ci sono neanche suoni radiofonici, figurarsi playlist e algoritmi vari. Evviva Rosalía. Il riferimento principale – e coautrice non a caso del difficile singolo di lancio, Berghain – è Björk, la regina del pop sperimentale ormai dagli anni Novanta, qui in coppia con il volto scuro e paranoide della bella elettronica psichedelica del 2025, Yves Tumor. E però, sorpresa: Rosalía non è né Björk e né Yves Tumor, insomma non è mica un’artista sperimentale o alternativa, semmai una delle più grandi popstar al mondo, da stadio, comunque amatissima da un pubblico ampio. Ma Lux, per capirci, non è neanche Debí tirar más fotos, l’album con cui quest’anno Bad Bunny ha allargato per sempre i confini del reggaeton, garantendogli una profondità finora inedita e portandolo al successo – o meglio, al rispetto – di massa, dimostrando che non è più solo un gioco. No, Rosalía sta su un altro pianeta e qui ha rinunciato a ciò che aveva reso Motomami irresistibile.
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