L’Equazione Delle Cover Band | Indie For Bunnies

Esiste una legge non scritta che governa le notti italiche, tra sagre, pub e piazze estive: più commerciale è l’artista da coverizzare, più è generalista il pubblico, più la cover band avrà successo.
Si tratta di una vera e propria equazione sociale: il successo (S) è proporzionale al grado di commercialità (C) dell’artista o della band originale, moltiplicato per un fattore che esprima quanto il pubblico presente è generalista (G), e potenziato da tre variabili accessorie: le hit rese celebri da TikTok o dagli altri social (H), la presenza di testi semplici e banali (R) scanditi da rime tipo “cuore–amore”, e, in barba ad ogni discorso di equiparazione e uniformità, la presenza femminile (F) — spesso indispensabile, in una società che resta conservatrice e maschilista, per attirare sguardi, selfie e approvazione di massa:
S = C × G × (H + R + 3F)
3F, perché ogni donna sul palco vale il triplo: una per cantare, una per le fotografie e una per fingere che tutto questo sia emancipazione.
Più il repertorio proposto abbonda di tormentoni radiofonici di successo, più il pubblico è felice e si sente al sicuro. Più i testi sono semplici, diretti, adagiati su comode rime scolastiche e sentimenti prefabbricati, più la folla canta in coro, convinta di vivere emozioni originali.
Le cover band, in fondo, non riproducono soltanto musica: riproducono un immaginario collettivo reazionario e fossilizzato, ciò che resta di una nostalgia mediatica travestita da autenticità. Ogni accordo è un riflesso condizionato, ogni applauso un piccolo voto di consenso alla mediocrità condivisa.
È la matematica del falso: più finta è la passione, più sembra vera. È la legge della mediocrità festante, la fisica delle sagre, la teologia dei karaoke. Funziona sempre. Il repertorio ideale? Quello che tutti conoscono.
Ogni assolo è un autoabbronzante per l’anima, ogni “ancora!” gridato davanti al palco è un urlo di disperazione travestito da entusiasmo. E mentre la band rifà l’Albachiara del momento, per la millesima volta, il pubblico si convince di assistere a un rito sacro, non a un banale copia–incolla acustico del peggior jukebox nazional–popolare.
In fondo, le cover band sono la perfetta metafora dell’Italia contemporanea: un Paese marginale e periferico, che scambia la ripetizione per nostalgia e la nostalgia per cultura. Un Paese in cui “cuore–amore” non è la più scontata delle rime, ma il manifesto politico della Nullità al Potere.
E così, mentre nelle piazze si consumano gli stessi rituali della nostalgia a buon mercato, il ministro della Cultura canta “Albachiara” per annunciare la splendida cittadina di Alba come capitale italiana della cultura. Un’immagine perfetta: il potere che si traveste da popolo, la politica che si confonde col karaoke, la cultura ridotta ad un teatrino ministeriale. Un ministro che non rappresenta la cultura, ma la sua caricatura: la versione istituzionale della cover band, il funzionario del consenso che confonde il patrimonio artistico con la hit da falò.
Non è un episodio, è un sintomo nazionale: lo Stato che si autocelebra imitando ciò che lo ha già svuotato. In un Paese dove anche la cultura deve “piacere”, tutto si misura in applausi, in like, in cori da stadio. E mentre il ministro intona “respiri piano per non far rumore”, il rumore del vuoto copre ogni altra voce.
Come avrebbe detto Pasolini, viviamo in un’epoca in cui la vera tragedia non è l’ignoranza, ma la felicità obbligatoria del conformismo: tutti cantano, nessuno ascolta davvero.
Il quadro di René Magritte, “Golconda”, con i suoi uomini identici sospesi nel cielo, è la perfetta allegoria della ripetizione e della scialba uniformità del gusto.
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