Società

Walter Siti: «A 13 anni un uomo ha provato a molestarmi ma non l’ho detto a nessuno: se lo avessi fatto non sarei quello che sono oggi. I ragazzi di oggi fanno poco sesso ma io, a 78 anni, ne sono ancora ossessionato»

Walter Siti risponde al telefono con voce intorpidita: «Stavo facendo una pennica, mi ha svegliato il discorso di Donald Trump che, a un certo punto, ha detto che bisogna arrivare alla pace attraverso la forza», racconta Siti che, a 78 anni, dopo un Premio Strega vinto nel 2012 e diversi libri bellissimi, come Il contagio, Troppi paradisi e Scuola di nudo, il romanzo d’esordio che pubblicò quando ne aveva 47, continua a guardare il mondo che lo circonda con curiosità ed entusiasmo. A finire sotto la lente di ingrandimento nel suo ultimo saggio, La fuga immobile pubblicato da Silvio Berlusconi Editore, sono proprio i ragazzi della Generazione Z che stanno prendendo le misure in una società ricca di contraddizioni in cui loro stessi faticano a orientarsi. Tra sensibilità troppo spiccate che si pensa di preservare cancellando l’origine di alcuni disagi e una certa volontà di impegnarsi per manifestare il proprio dissenso di fronte a certe ingiustizie del mondo, Siti racconta come solo lui sa fare i ragazzi di oggi fotografandoli con la lucidità e l’ironia di un pensatore che ha visto passare tanta acqua sotto i punti ma che, per fortuna, sente ancora il bisogno di dire la propria senza farsi da parte. A un certo punto, parlando del futuro, dice: «Forse bisognerà chiedersi che cosa bisogna sperare, e forse si dovrebbe capire se vogliamo adattarci a una situazione in cui i forti comandino con un pochino meno di arroganza e i deboli si adattino con un pochino di possibilità in più di arrangiare qualcosina».

Parlando dei giovani lei cita una certa industria della vulnerabilità, ma sono loro a essere davvero così vulnerabili o gli adulti a volerli vedere così?
«Penso che i ragazzi non sappiano veramente cosa fare perché gli adulti che li circondano assumono via via posture diverse. Rifletto, per esempio, sui genitori che hanno capito che doveva esserci una certa parità tra uomo e donna – visto che non era più accettabile che l’uomo uscisse con il gruppo di amici il martedì e il giovedì sera dando per scontato che la donna dovesse restare a casa a fare le faccende – e poi rifletto su Trump che, in uno dei suoi ultimi discorsi, ha intimato ai maschi di essere forti, di indossare la divisa e di combattere: questi modelli che cambiano sempre più velocemente temo che schiaccino i giovani. È un discorso che, dall’America, arriva in Europa in una forma più appannata e mitigata, con molti giovani che stanno cercando di scomparire per vedere da che parte andare. A colpirmi, però, è anche il fatto che abbiamo insegnato a questi ragazzi a non dover offendere nessuno, come se fosse una generazione di pasta frolla».

Walter Siti da adolescente voleva scomparire come certi ragazzi di oggi?
«Nel 1968 ero una matricola: era il periodo in cui bisognava scendere in piazza, lottare contro l’autoritarismo, occupare i binari delle stazioni e le università. Dentro di me sentivo il bisogno di protestare come tutti, ma mio padre mi consigliava di nascondermi dentro a un portone durante le manifestazioni anziché dire di non prenderne parte perché, se avessi fatto così, mi avrebbero segnalato come uno di destra. In pratica mi diceva di non farmi vedere, e io ho fatto così: ho passato il ’68 nei cortili, imboscato, come se fossi un privatista. Ripensando a quel periodo credo che le manifestazioni per il Vietnam assomigliavano un po’ alle manifestazioni per la Palestina che sono state fatte in questi mesi, solo che se prima c’erano due modelli, quello sovietico e quello americano, oggi il modello del mondo sembra essere uno solo: questo ha portato molti giovani a credere nella possibilità di ripartire da capo, ritrovando un nuovo significato alla giustizia».

È giusto parlare di rivoluzione, secondo lei?
«All’epoca la parola rivoluzione si poteva ancora usare, ma oggi credo che non sia più opportuno visto che si dice che non si deve mai usare la violenza. Solo che io di rivoluzioni fatte senza la violenza non me ne ricordo se non quelle invocate da Gandhi che, secondo qualcuno, a un certo punto disse che preferiva un popolo di violenti a un popolo di vigliacchi. Viene logico, quindi, chiedersi attraverso quali percorsi questi ragazzi pensano di ricominciare da un’altra parte, abolendo lo stato di cose presente. Ho l’impressione che quello che una volta si chiamava riformismo e quello che una volta si chiamava rivoluzione si siano fusi in qualche modo, ma senza dirlo. Ora le due cose stanno insieme».


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