Gaza senza pace: raid e oltre 100 morti
Dopo ventiquattrore che hanno fatto temere il peggio, torna in vigore il cessate il fuoco a Gaza, anche se l’esercito israeliano ha compiuto ieri un nuovo attacco aereo sul Nord della Striscia, per contrastare una «minaccia imminente». Israele ha ripristinato lo stop ai combattimenti all’indomani del martedì nero dei «potenti e immediati raid» ordinati dal governo di Benjamin Netanyahu, che hanno segnato il giorno più sanguinoso dal 10 ottobre, data di entrata in vigore del piano di pace. Secondo fonti di Hamas – impossibili da verificare – tra i palestinesi si contano oltre 100 morti, fra cui 52 minori, notizie che l’Onu definisce «spaventose». Gli israeliani riferiscono di una trentina di comandanti del gruppo terroristico uccisi e piangono l’uccisione del riservista Yona Efraim Feldbaum, 37 anni, colpito da un cecchino palestinese durante l’imboscata degli estremisti nell’area di Rafah, nel Sud della Striscia. L’uccisione del sergente maggiore è stata considerata da Israele una violazione degli accordi, insieme alla messinscena di Hamas sulla restituzione del corpo di uno dei 13 ostaggi deceduti e insieme al ritardo nel ritorno delle salme di tutti i rapiti.
Eppure per Donald Trump, il cessate il fuoco a Gaza «non è a rischio». Il presidente americano, promotore del piano di pace che secondo lui «sta entrando nella seconda fase», ritiene sia «giusto» che Israele risponda a eventuali attacchi, ma spiega che «nulla metterà a repentaglio» lo stop ai combattimenti. A una condizione: che Hamas si comporti bene. «Se non lo farà, sarà sterminata», taglia corto il leader statunitense, nonostante la deputata repubblicana Marjorie Taylor Greene su X si dica inorridita dai bimbi palestinesi uccisi e parli di «crimini di guerra» israeliani.
Gli Stati Uniti sono consapevoli che la strada verso la pace a Gaza sarà costellata da giornate come quella di martedì, da possibili attacchi e reazioni, ma la Casa Bianca resta convinta che il processo reggerà, se Hamas rispetterà i patti. E su questo punto si alza la voce del principale interlocutore del gruppo terroristico, il Qatar, tra l’altro mediatore nelle trattative di pace. Il primo ministro Mohammed Al Thani ammette la «violazione da parte palestinese», ma spiega che la cosa più importante «è assicurarsi che l’accordo non crolli». Al Thani spiega che i mediatori stanno premendo su Hamas e la fazioni palestinesi «perché riconoscano la necessità di disarmarsi». Il premier ne approfitta anche per puntare il dito su Israele, che «tortura e maltratta i prigionieri palestinesi» come Marwan Barghouti, il «Mandela di Palestina» di cui chiede la liberazione, come stanno facendo ex leader internazionali, tra cui l’ex presidente irlandese Mary Robinson e l’ex presidente colombiano Manuel Santos, Nobel per la Pace nel 2016. Le parole di Al Thani arrivano subito dopo quelle del ministro israeliano Katz, che annuncia invece il divieto per la Croce Rossa di visitare i detenuti palestinesi in base alla legge sui «combattenti illegali». «Permettere le visite – sostiene – danneggerebbe gravemente la sicurezza dello Stato».
Gli attacchi di martedì alzano dunque nuovamente la tensione, non solo tra Hamas e Israele ma anche all’interno di Israele. Il ministro della Difesa, Israel Katz, avverte che i vertici del gruppo terrorista «non beneficeranno di alcuna immunità» e questo riguarda sia «chi indossa abiti eleganti, sia chi si nasconde nei tunnel».
Ma a rivolgersi a Netanyahu è il ministro della Sicurezza nazionale, Itamar Ben Gvir, da sempre contrario all’accordo per il cessate il fuoco, che accusa il primo ministro di «debolezza», contestando la «reazione misurata» dopo l’attacco, e lo avverte: se il governo dovesse «accontentarsi di dichiarazioni di vittoria di facciata» senza eliminare il movimento islamista, «non avrebbe più diritto di esistere».
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