Cultura

Sons – Hallo | Indie For Bunnies

I SONS sono una band belga nata tra il 2016 e il 2017, originaria di Melsele, una cittadina nella regione fiamminga nei pressi di Anversa.

La loro popolarità è cresciuta notevolmente nel 2018, quando hanno vinto l’Humo’s Rock Rally, uno dei concorsi musicali più importanti e rispettati della scena alternativa belga. Tra i precedenti vincitori figurano artisti come dEUS, Goose, Balthazar e Absynthe Minded.

Il loro sound mescola un garage rock energico con influenze di post-punk e alternative.

I concerti dei SONS sono esperienze ad alta intensità: una combinazione ben dosata di energia quasi caotica e cura per i dettagli, tanto nella resa sonora quanto nell’impatto visivo.

Credit: Spotify/Press

L’album è stato realizzato con il contributo essenziale alla produzione di David McCracken, che ha già lavorato con nomi di primo piano come Ian Brown, A$AP Rocky, Beyoncé e Depeche Mode, giusto per dare un’idea del calibro.

Nei lavori precedenti, i SONS puntavano soprattutto sull’energia, sul suono e sul ritmo; i testi spesso arrivavano a fine processo, quasi come un dettaglio da completare.

Con “Family Dinner” (2019) il loro stile era grezzo e diretto: pura energia, un garage rock da scantinato senza fronzoli. In “Sweet Boy” (2022), invece, iniziano a sondare territori più pop e alternativi, pur mantenendo quel carattere fisico e robusto.

“Hallo” però segna un cambiamento: un voler raccontare se stessi, le proprie debolezze e le contraddizioni di questo momento storico. Non è solo potenza strumentale, che non manca neppure in questo disco, ma anche una maggiore apertura alla vulnerabilità, alle debolezze.

Anche i testi riflettono questa evoluzione: non sono più solo rabbia o sfogo, ma si aprono spazi a momenti di riflessione, più morbidi ma comunque con qualche spigolo. L’album mescola rabbia e delicatezza in modo molto più equilibrato e consapevole rispetto al passato.

Già dalla traccia d’apertura, “Hallo”, si avverte un chiaro cambio di passo: non è solo un altro disco tirato, ma un invito ad aspettarsi sorprese, non solo l’occasione per dire “ciao” (Hallo, appunto) ma un avvertimento, un metterci in guardia.

La produzione è più curata, più attenta ai dettagli, ma senza perdere quella carica ruvida che i SONS sanno gestire bene. Il brano si apre in modo quasi controllato, con una batteria leggera e tocchi elettronici che danno respiro, poi esplode in un ritornello pieno, potente, dove le chitarre distorte fanno il loro mestiere e trascinano tutto il resto.

David McCracken ha fatto un gran bel lavoro portando la band fuori dal loro sentiero ben segnato, invitandoli a dare più rilievo al ritmo, al feel del brano, non solo alla potenza e al “rumore” puro.

Nella splendida “Do My Thing”, Robin Borghgraef canta “Got nothing to lose, nothing to take“, e già da lì si capisce il tono: deciso, diretto, ma anche leggero nel modo giusto. Il brano ha forti connotazioni dance, con un groove quasi ipnotico che si insinua sotto pelle, ed è una deviazione più che gradita rispetto al loro solito approccio ruvido e aggressivo.

Aver lavorato con i Depeche Mode potrebbe aver spinto McCracken a incidere “Once And For All” con quelle atmosfere elettroniche e la band sembra essersi divertita nel perlustrare questi territori elettronici, senza timori reverenziali.

Ovviamente, come i lupi che perdono il pelo, la band di Melsele ama creare una bella atmosfera dai toni viscerali: la sezione ritmica di “Bakala” ferisce i più deboli di spirito mentre “I’m Tired” ha la stessa forza dissacrante della quasi omonima “I’m getting Tired” dei nostri amatissimi Pixies.

“Somehow” al primo ascolto potrebbe sembrare la “canzoncina pop” dell’album.
Linea di basso trascinante, melodia ruffiana al punto giusto, ti entra in testa senza chiedere permesso. Ma il testo racconta di amicizie che si spezzano, sinceri tentativi di restare vicini che non bastano più. È una delle tracce più emotivamente cariche del disco, proprio perché riesce a mascherare il peso del messaggio con una forma leggera. Una canzone che ci spiazza, con quel finale che non ti aspetti.

L’approccio aggressivo di “Magic Mirror” precede “Big Mouth” che richiama quelle vibrazioni indie rock degli anni 2000: chitarre precise ma taglienti, basso pulsante, voce che vive fra tensione e melodia.

Il ritmo pop-punk di “All Good” ci invita a invadere il dancefloor. Ma se per caso ci troviamo lì quando parte “Death Chair”, rischiamo seriamente di non uscirne vivi: un’esplosione brutale, che ci lascia solo il fiato per urlare con loro “I want to get away!

Chiude l’album “The Dreamer”, in cui i SONS affondano in un’atmosfera decisamente più cupa, un doom metal ibrido, pesante e viscerale. Il basso pulsa profondo, quasi ossessivo, mentre le chitarre picchiano duro, lente ma inesorabili.
È una chiusura che ci inchioda su quel verso, “a sign to keep it on”, lasciandoci senza appoggi, con addosso un’eco lunga e quasi solenne.


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