Non essere cattivo, dieci anni dopo: come Borghi e Marinelli hanno trasformato l’ultimo film di Caligari in un cult del cinema italiano
Una storia degli anni Novanta
Quella di Non essere cattivo è una storia semplice: Vittorio e Cesare crescono insieme come fossero fratelli. Vivono di espedienti tra spaccio, truffe, furtarelli e occupazioni abusive. Lavorare è quasi un disonore, perché Caligari sa bene che il capitalismo ha già calato la maschera, e i suoi protagonisti si credono più furbi del sistema. Ma quando mancano i soldi subentrano la paranoia, la violenza e l’autodistruzione. Sono gli anni del boom dell’eroina, dell’AIDS che continua a chiedere il conto, degli eccessi disperati. E se in borgata provi solo a immaginare un futuro alternativo, c’è sempre chi ti risponde: «E ’ndo annamo?». Con l’ultimo tassello della sua poetica, Caligari ci regala una storia che appartiene a tutti: la tragedia della vita che va avanti e divide chi è cresciuto insieme. Un fratello cambia strada, l’altro resta indietro. Scegliere se salvarsi o provare a salvare l’altro è un bivio crudele.
Nel 2015 Non essere cattivo è ovunque: Venezia, David di Donatello, Nastri d’argento, Ciak e Globo d’oro. Caligari se ne va e il film esplode insieme al retrogusto doloroso di un addio, con la consapevolezza che quello è davvero il suo ultimo sguardo sul mondo. Ma per capire il fenomeno bisogna anche fare un salto indietro e dimenticare chi sono oggi, i due protagonisti. Alessandro Borghi, che ai tempi aveva alle spalle un decennio di partecipazioni nella serialità e qualche ruolo al cinema, e Luca Marinelli, diviso tra fiction tv e i primi bellissimi ruoli sul grande schermo – il debutto con La solitudine dei numeri primi di Saverio Costanzo, La grande bellezza di Sorrentino e Tutti i santi giorni di Virzì, che gli valse persino la candidatura ai David come miglior protagonista – ma che si muoveva ancora nel parterre degli esordienti di nicchia. Caligari non è solo il primo regista a mettere insieme il duo, aprendo a entrambi le porte di una popolarità fuori dal comune in Italia: è il primo a intercettare crepe, tensioni e tic delle rispettive personalità e sfruttarle per dar vita a due interpretazioni memorabili.
La Banda Caligari
Così spoglia Borghi della sua durezza e ne fa l’elemento più sensibile del film, un concentrato di impotenza, speranza e disperazione. È anche grazie a quella versione di Borghi, se tutti noi saremo per sempre Vittorio. Poi scova in Marinelli il seme d’una follia eccentrica e di una comicità che intenerisce. In mano gli mette un fucile scarico e in testa un cappello a bombetta. Poi lo accompagna verso la morte, sulle note di By My Lover di La Bouche: non è un tossicodipendente che spaventa il pubblico, è un eroe tragico a metà tra Chaplin e il Joker. Accanto a loro, un universo di personaggi universali: Silvia D’Amico con un’indimenticabile Pretty Woman di Ostia, Roberta Mattei solida e potente come l’amore che ti salva, Elisabetta De Vito con il dolore di una madre nelle ossa, e perfino Emanuela Fanelli al suo primissimo ruolo. Tutti insieme, in una grandiosa scommessa di casting (sulla scia di quella già vinta con Mastandrea, Giallini e Tirabassi ne L’odore della notte), compongono il ritratto di un’umanità disgraziata e commovente, la bellezza oscena di fine Novecento. Dieci anni dopo, se possibile, ancora più forte. Perché mentre il mondo cambia, la borgata resta fedele a sé stessa.
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