il regista di Boyhood presenta Nouvelle Vague
Come Terrence Malick e Wes Anderson è texano, e come i suoi illustri colleghi sembra più europeo che americano. È amante del cinema “indie” ed è un cinefilo assoluto. Naturalmente l’identikit non può che portare a Richard Linklater, tra gli ospiti più attesi alla 20ma Festa del cinema di Roma, per il premio alla carriera e per la presentazione in prima italiana del suo Nouvelle Vague, già concorrente all’ultimo Festival di Cannes.
Il cineasta è stato protagonista anche di una Masterclass dove ha percorso non solo la sua carriera, ma il suo modo di intendere il cinema. Cresciuto in una cittadina nel Texas orientale (“dove di attraente c’è solo una prigione”) e poi stabilitosi ad Austin, Linklater ha iniziato a 20 anni a vedere i film “ossessivamente” dopo aver capito che “non sarei diventato un romanziere”. Da sempre interessato ai “gap” – gli intervalli, i vuoti – in ogni realtà, il cineasta classe 1960 ha spiegato l’importanza del suo “gap” tra la fondazione della sua Film Society e l’inizio della carriera cinematografica: “praticamente in quel periodo ho costruito una comunità di cinefili attorno a me, qualcosa che poi si è rivelato fondamentale per scrivere e dirigere i miei film. Ho continuato e proseguo tuttora a programmare film nel cineclub da 40 anni”.
Intimamente “indie” – indipendente – non solo come produzione, specie a inizio di carriera, ma soprattutto come modo di intendere la settima arte, ha da sempre difeso il suo modo di fare cinema così sperimentale eppure così connesso al suo pubblico. Del resto per lui “il cinema è un medium molto potente per connetterti con gli spettatori, semplicemente perché li metti sullo schermo dove si specchiano!”. Ma è indubbio che il suo principale interesse in un film siano lo storytelling e i dialoghi, che talvolta appaiono come dei fluviali monologhi. Fin dal suo secondo lungo, Slacker (1990) dove lui stesso si mette in scena nella sequenza iniziale “monologando” con un tassista di digressioni (apparentemente) senza senso e certamente senza logica.
“Questo perché la follia, l’essere borderline, appartiene molto ai texani: non c’è posto migliore dove incontrare pazzi di ogni tipo!”. E i dialoghi infiniti sono la parte integrante della sua trilogia capolavoro, quella dei “Before”: Prima dell’alba (Before Sunrise, 1995), Prima del tramonto (Before Sunset, 2004) e Prima di mezzanotte (Before Midnight, 2013) co-scritta e interpretata dall’indimenticabile coppia Ethan Hawke-Julie Delpy. “Tendo ad ascoltare e scrivere molto, mi piacciono gli attori, non voglio pontificare su di loro. E questo, forse, ha reso possibile collaborazioni di lunga durata con loro (specie con Hawke, ndr). Soprattutto sono interessato alla gestione del tempo, del suo scorrere, per vedere le persone crescere, mutare, diventare loro stesse”. Infatti la trilogia, inizialmente non pianificata come tale, si espande lungo circa 20 anni, in cui i famosi “gap” di Linklater si identificano con un paradosso. Ovvero “che lascio fuori, lascio nei gap, le cose che contano della vita, il momentum per cosi dire, dando invece spazio agli elementi minoritari, ai dettagli, alle questioni quotidiane seppur frammentate”.
In tal senso il capolavoro assoluto è Boyhood (2014), un’opera fiume girata nell’arco di 12 anni che racconta il “diventare grande” di un bimbo dai 6 ai 18 anni. “Con Boyhood avevo risolto questa mia curiosità ma mi ero creato un nuovo problema: come finire un film in 12 anni? È stata dura, ma ce l’abbiamo fatta. Ogni volta che ci incontravamo con troupe e attori dovevamo tornare a “giocare” con la spontaneità”.
Nel tempo è chiaro che gli Studios si sono accorti del talento da regista. Ecco arrivare “blockbuster” come School of Rock (2003) con l’amico e sodale Jack Black, ma è chiaro che benché nutrito di star, il cinema di Linklater resta genuinamente indipendente nel suo mindset, cioè nella sua “forma mentale”. Con personaggi, peraltro, molto connessi da film a film. Persino quelli di Nouvelle Vague, laddove nel 1959 i “giovani turchi”, animatori dei celeberrimi Cahiers du Cinéma – Godard, Truffaut, Chabrol, Rivette, Rohmer etc.. – ragionano sulle forme del cinema, rivoluzionandolo dal di dentro e dal di fuori. “Quella è stata la più grande rivoluzione del linguaggio cinematografico e vedendo loro, così giovani e intraprendenti, ho pensato a quanto anche nella mia piccola community eravamo pieni di entusiasmo e voglia di raccontare”.
Source link




