Le parole non sono un trucco
Questo articolo è pubblicato sul numero 43 di Vanity Fair in edicola fino al 21 ottobre 2025.
Ci vogliono almeno otto ore di restauro a settimana per non sembrare una senzatetto», scriveva ironicamente Nora Ephron nel saggio Il collo mi fa impazzire. Una verità in punta di penna che risuona con il presente: oggi la bellezza non è più un racconto in due tempi, con un «prima» e un «dopo» che sanciscono la trasformazione. Assomiglia piuttosto a un «durante», un cantiere fatto di piccoli aggiustamenti, rituali ripetuti, nuovi significati attribuiti a gesti antichi. Non si insegue la metamorfosi drastica – che fa quasi paura –: conviene accogliere un work in progress, qualcosa che si costruisce e si perfeziona giorno dopo giorno. Mentre questo processo prende forma, si ridefinisce anche il linguaggio: le parole partecipano tanto quanto i pennelli o i sieri, convertendo la consuetudine in aspirazione, il familiare in desiderio. Così, con qualche colpo di trucco lessicale, tutto quello che sembrava vecchio si ripresenta nuovo: il digiuno diventa intermittent fasting, la cura della pelle skin cycling. «La lingua influisce sulla percezione delle cose», spiega Giulio Mainardi, linguista e traduttore. «Cambiare nome è in parte mutare identità: una cosa già esistente può essere rilanciata come una novità. Per qualcuno sarà strano o sgradevole, ma altri ne saranno attratti. Non si vuole più solo descrivere, ma creare un’esperienza».
Il paradosso? L’autenticità è costruita con più cura di qualunque maschera del passato: un look fresco richiede dieci passaggi di skincare, l’effetto nude va scolpito in un’ora di pennellate, i capelli annodati dal vento si creano con styling mirati. È la naturalezza come progetto estetico, forse l’inganno più raffinato di tutti. Per questo non bastano più le vecchie definizioni: servono parole nuove per rinominare l’antico e farlo sembrare contemporaneo. E se il termine scelto non è del tutto comprensibile, tanto meglio: «Chi lo capisce si sente parte di un gruppo speciale, chi non lo capisce vuole imparare per non sentirsi escluso», osserva Mainardi. «Nella psiche collettiva se qualcosa è in inglese ci appare migliore, di solito a un livello inconscio, e si diffonde come una patina con cui indoriamo il mondo». I termini che catturano l’attenzione possono dissolversi in pochi scroll o, al contrario, cambiare radicalmente il gioco. «Sui social l’attenzione del pubblico è il premio ambìto, ma la concorrenza è strenua», conclude l’esperto.
«La lingua diventa allora uno strumento primario: è veloce e costa poco. Chi la sa usare va dritto al bersaglio».
È attraverso le parole inventate (e più usate) che la bellezza diventa desiderabile, iconica, pop. Il corpo è un palcoscenico, ma il copione lo scrive il linguaggio. Ed è proprio lì che avviene il makeover più imprevedibile.
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