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Silvia Alessi, parrucchiera e fotografa che ha documentato la vita nei saloni clandestini dopo il divieto dei talebani: «L’esperienza delle donne afghane rimaste senza lavoro avrebbe potuto essere anche la mia»

C’è un messaggio che l’ha colpita di più?
«Quello di Nilo: “Soffro tantissimo di non sentirmi più libera”. Come alle altre ragazze tra i 20 e i 30 anni cresciute nel periodo in cui c’erano ancora gli americani, Nilo soffre di non poter più lavorare. I talebani le hanno private di tutto con pesanti conseguenze personali ed economiche».

Si è instaurato un rapporto con queste donne?
«Ci sono affezionata, con alcune ci sentiamo ancora oggi. Ho passato con loro tutto il tempo possibile, le ho osservate e fotografate mentre lavoravano clandestinamente nelle loro case, tagliando e pettinando i capelli di altrettante clienti clandestine, spesso mi chiedevano anche di restare a dormire da loro. Ricordo quando una mi disse: “Silvia, è bellissimo quello che stai facendo per noi, perché è importante che si sappia”. È stata lei a portarmi nel salone di estetica più “cool” di Kabul».

Che cosa aveva di diverso?
«Era nascosto in un palazzo bellissimo ma anonimo all’esterno. Ho intuito che lì dentro accadeva qualcosa solo perché da lontano sentivo il rumore dei phon. Dentro c’erano una decina di apprendiste al lavoro e, in fondo, una sposa vestita di giallo. I talebani sanno dell’esistenza del salone, ma fingono che non esista».

Perché?
«Anche le mogli dei talebani vanno dal parrucchiere. Qualcosa di aperto, dunque, deve esserci. Così si accordano con chi gestisce il salone: tu paghi un pizzo ogni mese e ti lasciano lavorare — anche se la cifra resta la stessa, indipendentemente dalle entrate. Una realtà davvero incredibile».

C’è qualcuna che l’ha colpita più delle altre e perché?
«Sì, Sadaf, dell’etnia Pashtun. Di solito le donne Pashtun non possono parlare senza il permesso della famiglia, ma lei era diversa: aperta, solare, curiosa. L’ho incontrata a Mazar-i-Sharif, in una casa con un giardino e una piscina vuota. Sembrava la scenografia di un film di Sorrentino.
Per un anno aveva vissuto in Pakistan, perché in patria un talebano la perseguitava per sposarla. Se non avesse acconsentito alle nozze, avrebbe ucciso tutta la sua famiglia. È tornata in Afghanistan, dopo che la famiglia si era accordata per il matrimonio combinato che l’avrebbe protetta: “Se sei fidanzata o sposata, nessuno ti può toccare. Mi sento libera”, mi ha detto.
Oggi vive lontana dalla sua famiglia che si è trasferita in Canada. Si adatta alla situazione, ma non è felice. È una donna istruita, moderna, con una mentalità aperta, ma vive con la suocera e soffre in silenzio. Economicamente sta bene, la casa in cui vive appartiene a un politico, un personaggio influente del precedente governo, per cui i suoi suoceri lavoravano. Ma, quando lei ho chiesto dove vorrebbe trovarsi, mi ha risposto: in Canada».


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