Società

David Farrier: «Dalle rondini che accorciano le ali per volare tra le autostrade alle rane che modificano l’intestino per sopravvivere alle microplastiche: l’incredibile intelligenza degli animali per adattarsi ai cambiamenti ambientali»

È stupefacente scoprire la struttura collettiva degli alveari, la rete sotterranea che connette le radici degli alberi, l’elaborata architettura delle barriere coralline. Ed è incredibile vedere come il mondo naturale si adatti ai cambiamenti che l’uomo gli impone: così, per esempio, in pochi anni gli uccelli, dopo la deforestazione, hanno cambiato le loro ali e le rane, con l’invasione delle microplastiche, hanno ampliato i loro intestini. Sono stati flessibili, molto più di quello che l’uomo sembra essere capace di fare, arroccato com’è nella sua posizione di invasore con la verità in tasca.

David Farrier, docente di Letteratura Inglese all’Università di Edimburgo, nel suo ultimo libro «Il genio della natura – Lezioni di vita dalla Terra che cambia» (Touring Club Italiano, pp. 300, € 24) racconta perché dovremmo imparare dagli animali e dalle piante, prima che sia troppo tardi e spiega metodi, sistemi einvenzioni: «Perché la natura non parla, ma insegna».

L’intervista a David Farrier

Si dice che si stia passando dall’era dell’Antropocene a quella del Simbiocene, che stia cambiando la nostra percezione del paesaggio, del futuro e di noi stessi rispetto alla natura. È vero secondo lei? C’è davvero maggiore sensibilità su questi argomenti o c’è ancora molto da lavorare?
«Il Simbiocene – un’era in cui gli esseri umani riscoprono il loro posto nella rete delle relazioni viventi – è il miglior futuro a cui possiamo aspirare; forse l’unico davvero auspicabile, visto che l’alternativa è una separazione dalla natura, che sta diventando sempre più dannosa. Questa è la grande menzogna del capitalismo: che la natura esista “là fuori” solo per il nostro uso. E finché il capitalismo domina le nostre economie, non possiamo dire che il Simbiocene sia già arrivato. È però incoraggiante vedere quante persone siano aperte all’idea di vivere più in relazione con la natura: come dimostra il movimento dei “Diritti della Natura” guidato da studiosi e attivisti indigeni (un promemoria che ci mostra come non tutte le società umane hanno dimenticato di far parte del mondo vivente). Tuttavia, c’è ancora moltissimo lavoro da fare. Vale la pena ricordare che Glenn Albrecht, il filosofo australiano che ha coniato il termine “Simbiocene”, ha inventato anche “solastalgia” per descrivere la sensazione di lutto per il mondo che stiamo perdendo. Il nostro rapporto con la natura è complesso: siamo connessi agli altri esseri viventi anche attraverso i danni che infliggiamo, costringendo molte specie ad adattare corpi e comportamenti per sopravvivere su un pianeta dominato dagli uomini e noi possiamo imparare molto dal loro esempio. Il genio trasformativo della natura, capace di reagire anche sotto pressioni straordinarie, può aiutarci a riscoprire il nostro stesso potenziale di cambiare il modo in cui viviamo».

C’è un’immagine, un paesaggio o una creatura che per lei incarna in modo esemplare il «Genio della natura»? Ci può citare un caso emblematico tra quelli da lei raccontati?
«Le nostre città sono veri e propri hotspot evolutivi, perché da un lato replicano habitat naturali (i palazzi diventano scogliere, le metropolitane grotte) e dall’altro offrono nuove opportunità in termini di cibo o calore. Molti animali e piante urbane si adattano a queste condizioni, ma alcuni sanno addirittura adattare la città ai propri bisogni. In Scozia e nei Paesi Bassi, ad esempio, si sono osservati uccelli che strappano i dissuasori anti-volatili – pensati per tenerli lontani dagli edifici – e li usano per costruire i nidi. È il mio esempio preferito perché, sebbene sia un cambiamento relativamente modesto, rappresenta un’idea profonda: ciò che era una barriera può diventare un rifugio. In evoluzione questo fenomeno si chiama “exaptation”: la funzione originaria delle piume non era il volo, ma l’isolamento termico – le prime piume furono un adattamento a un clima che cambiava, e solo in seguito furono riutilizzate per volare. L’exaptation ci insegna che la natura immagina sempre nuovi usi di ciò che ha a disposizione. Non a caso ci sono architetti e designer che si ispirano a questo principio per introdurre circolarità e riuso nell’edilizia, un settore che oggi è responsabile di circa un terzo delle emissioni globali di CO₂».

Lei parla di plasticità e in pochi anni possono esserci delle trasformazioni: non sono processi così lunghi come ci si immagina. Quanto ci vuole (come minimo) perché un animale cambi la sua fisicità (lei fa l’esempio delle rondini) e le sue abitudini?
«Le rondini americane dei dirupi hanno sviluppato ali più corte e aerodinamiche per sopravvivere lungo le strade in pochi decenni. Siamo abituati a pensare all’evoluzione come a un processo estremamente lento, ma quando emerge una nuova urgenza o opportunità può essere rapidissimo. Detto ciò, la maggior parte dei cambiamenti osservabili, incluse quelle sulle rondini, non riguarda la speciazione – cioè la nascita di nuove specie – ma la plasticità, ovvero la capacità intrinseca di tutti gli esseri viventi di esprimere geni diversi o nuove combinazioni genetiche, sviluppando caratteristiche fisiche o comportamenti più vantaggiosi. La plasticità è il segreto del genio trasformativo della natura. Anche noi abbiamo questo potenziale. Non siamo evoluti per vivere in città, eppure ci stiamo fisicamente adattando ad esse – in parte in modo positivo (siamo più alti e viviamo più a lungo rispetto a 100 anni fa) – in parte meno (è aumentata l’obesità). Colpisce che un articolo scientifico fondamentale sulla plasticità, del botanico Anthony Bradshaw, sia stato pubblicato nello stesso anno in cui fu brevettato il sacchetto di plastica: il 1965. Oggi le plastiche saturano fiumi e oceani sotto forma di microplastiche. Le larve della rana artigliata africana, ingerendole, aumentano la massa intestinale per compensare la perdita di nutrienti: la plasticità diventa una risposta all’inquinamento da plastica. Noi non abbiamo la stessa capacità di modificare i nostri corpi, e nessuno sa ancora quali effetti avrà l’ingestione di microplastiche sulla biologia umana. Ma osservare come la natura si sta adattando oggi può insegnarci molto sul nostro potenziale di trasformare la nostra condizione. La lezione della plasticità è che possiamo cambiare il nostro modo di pensare e vivere, e, come le rondini, possiamo farlo in tempi relativamente brevi».


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