perché la produttività cala e come migliorarla
È un tema passato (forse colpevolmente) in secondo piano con l’avvento dell’intelligenza artificiale ma rimane sempre e comunque di strettissima attualità: stiamo parlando dello smart working. Come si fa a rendere a rendere realmente efficace questa “pratica”? La necessità di un cambio culturale nell’organizzazione del lavoro per massimizzarne i benefici è sentita in modo corretto da tutto il management?
Partiamo da qualche numero per evidenziare come intorno a questo argomento aleggino diverse contraddizioni. Nel 2025, secondo le rilevazioni del Politecnico di Milano, il lavoro agile in Italia conterà su una popolazione attiva di 3,7 milioni di individui (il 5% in più rispetto all’anno precedente); un’indagine condotta da Confindustria la scorsa primavera, per contro, ci dice come nel 2024 la produttività per ora lavorata sia calata dello 0,6% e come per quest’anno sia attesa solo una modesta ripresa (sempre dello 0,6%). Perché, lecito chiedersi, il benessere percepito non cresce? Forse perché il problema risiede nel modo in cui si applica e utilizza questo modello? Fra abuso di videocall, difficoltà nel prendere decisioni in autonomia e cultura della reperibilità, le aziende faticano ad adattarsi a logiche orientate agli obiettivi e ai reali processi cognitivi delle persone e serve quindi un cambio di paradigma. Ne abbiamo parlato con Carlotta Silvestrini, fondatrice e Co-Ceo di Mudra, advisory company italiana che opera nella consulenza strategica, elevando gli asset intangibili (la reputazione e l’identità del brand, il capitale umano, la gestione proficua del dato e la capacità di innovare) a leva fondamentale per la crescita aziendale.
Partiamo da una precisazione: che differenza c’è fra smart worker e remote worker?
Non tutti i lavori da remoto sono smart e non tutti i lavori smart sono svolti da remoto. Si tratta di due concetti profondamente differenti: “smart working” è un neologismo che descrive un modo intelligente, e quindi efficiente, di pianificare e portare a termine le attività lavorative, anche stando in azienda, attraverso obiettivi definiti e libertà di gestione in termini di tempi e luoghi. Chi lavora da remoto timbrando il cartellino virtuale tramite app e trascorre mezz’ora a scrivere il rapportino orario della giornata allo scadere delle otto ore non sta lavorando in modo “smart” ma ha solo cambiato scrivania. La differenza non la fa dunque il luogo, ma il modo in cui si sposta il focus dal tempo lavorato al risultato desiderato. La vera domanda da farsi è quindi anche un’altra: quanti dei remote worker italiani sono anche smart worker?
Il lavoro agile è più diffuso, ma la produttività è in calo. Cosa si sta sbagliando, secondo lei?
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