Ambiente

«Sono un eco ansioso, grato al successo. Amo il teatro, ma ogni ciak è unico»

«Sono sempre stato sensibile al tema ambientale. Da amante della montagna d’estate, quando vedo i ghiacciai ritirarsi così rapidamente di anno in anno sono invaso da un’angoscia totalizzante e questa sensazione di non avere nessun posto che ti metta al riparo…». È quella che chiama eco-ansia a spingere Stefano Accorsi, attore amatissimo dal pubblico tanto da cambiare gli esiti al botteghino di un film, a dedicarsi alla salvaguardia dell’ambiente. Lui, workaholic, come si ritrae beffardamente in una puntata di Chiama il mio agente! («Mi sono divertito da pazzi») ha deciso di prendersi tre giorni, dal 26 al 28 settembre, a Firenze per dare vita alla seconda edizione di Planetaria, rassegna ideata da Accorsi stesso e Filippo Gentili, che ospita scienziati, attrici e attori, cantanti e autori, in spettacoli, eventi, talk, laboratori, incontri e proiezioni, tutto a ingresso gratuito, per raccontare il futuro del pianeta ed esplorare le urgenze del climate change. «Non credo nell’efficacia del giornalismo su questo tema, perché la sua natura è di macinare notizie e dare un riscontro a tambur battente, quando il cambiamento ambientale è un processo lento. I titoli catastrofisti allontanano. Invece, il teatro è il posto adatto per discutere perché è un luogo empatico. Naturalmente con una base scientifica rigorosa». Garantita dal comitato di Planetaria composto dal fisico Giulio Boccaletti, dalla climatologa Claudia Pasquero e dagli esperti di economia e sostenibilità Stefano Pogutz e Francesco Perrini. «Sono scienziati bravissimi a comunicare e mentre altri trasmettono dati che creano un senso di impotenza terribile, il teatro, così come il mondo della cultura in generale, possono affrontare questi temi in un modo costruttivo, proponendo scenari futuri in cui scienza e politica si parlino per trovare soluzioni». Anche se il mondo va in senso contrario, a partire dalle politiche di Trump, propense a rilanciare le fonti fossili e arrestare la transizione verso l’energia pulita. «C’è, però, tutta una parte di economia reale che agisce già a favore di una politica ambientale, perché le aziende sanno che convertirsi al green sul medio lungo termine è un investimento molto interessante. E anche perché i ragazzi hanno una forte sensibilità ambientale e i più bravi tra di loro sceglieranno di lavorare con chi ha un certo tipo di approccio ecologico, e non parlo solo di sostenibilità, ma anche di inclusività». A Planetaria si fa attenzione al pubblico giovane. Ci saranno, tra gli altri, Matilda de Angelis, Pilar Fogliati e Teresa Saponangelo, e per i più piccoli Lo Zecchino d’oro, giochi in inglese e molta musica. Le giornate si svolgono soprattutto al Teatro della Pergola, di cui Stefano Accorsi è stato direttore artistico fino a un anno e mezzo fa, oggi sotto la direzione di Stefano Massini e al centro di polemiche per il declassamento (non è più teatro nazionale) voluto dal Ministero della Cultura con sensibile diminuzione di finanziamenti pubblici. «Massini ha vinto per Lehman Trilogy cinque Tony Award, il premio di teatro più importante che c’è al mondo. Ha realizzato una stagione eccezionale, quindi onestamente mi sembra strano. Molto strano».

Nato a Bologna nel 1971, Accorsi rimane nella franchezza asciutta ma gentile un ex ragazzo di provincia (è cresciuto a Bagnarola, un paese emiliano di poco più di 300 abitanti), cosmopolita e privo di sussiego, nonostante vanti un nutrito palmares di rango: il David di Donatello e il Ciak d’oro per Radiofreccia (1999), il Nastro d’argento e il Globo d’oro per Le fate ignoranti (2001), la Coppa Volpi alla Mostra del cinema per Un viaggio chiamato amore (2002) . Maglietta nera, capelli quasi rasati, via i riccioli con cui ha debuttato nel film di Pupi Avati Fratelli e sorelle (1992), cresce negli anni di videomusic (partecipa al video degli 883 Una canzone d’amore) e della pubblicità. La sua freschezza rimane nell’immaginario collettivo per lo spot del gelato Maxibon, con la battuta in angloitaliano, diventata un tormentone, Due gust is megl che uan. Si racconta con molta aneddotica sulla vita e sulla carriera in un table book, con bellissimi ritratti, Album Stefano Accorsi (a cura di Malcom Pagani, Gruppo editoriale, 2021): gli scatti da bambino e quelli dei genitori giovani in camicia di cotone grezzo. «I miei erano un po’ hippie, un po’ sessantottini, ma concreti, nel senso che lavoravano da impiegati, poi avevano aperto un bar. Da mio padre ho imparato ad ascoltare il jazz, Lucio Dalla, Paolo Conte. Mia madre mi ha trasmesso l’attenzione all’alimentazione, importante come l’attività fisica». Recentemente Accorsi è apparso in copertina di «Men’s Health Italia», dove ha parlato dei suoi coraggiosi allenamenti all’alba. «È un rigore che ho trasmesso ai miei figli: sono tutti sportivi». Di figli Accorsi ne ha quattro, Orlando e Athena, avuti dalla ex compagna Laetitia Casta, e Lorenzo e Alberto, nati dalla moglie Bianca Vitali. Sin dal debutto la sua parte è stata spesso quella di casanova, e anche per questo – oltre che per la somiglianza fisica e certo tipo di recitazione – Accorsi è stato accostato a Mastroianni, che odiava quest’etichetta . «Povero Mastroianni, ogni tanto gli accostano qualcuno. Credo che nessuno possa essere paragonato a un tale gigante, un attore strepitoso, con uno specifico unico, che ha sempre scelto con grande attenzione i registi con i quali lavorare». E Accorsi chi sceglierebbe? «Sono da sempre un fan di Matteo Garrone e di Paolo Sorrentino, che regalano personaggi straordinari. Però, a volte, capita di fare un film con un regista da cui non ti aspetti nulla e viene fuori la perla. Il cinema è un processo misterioso, nessuno ha la sicurezza del successo in tasca». La preparazione di Accorsi è stata però sul palcoscenico: dopo il liceo, frequenta la scuola di Teatro Alessandra Galante Garrone di Bologna. «Non potrei stare senza teatro», spiega, così tra un film e l’altro nel 2012 è riuscito a portare in scena una rilettura dell’Orlando Furioso per la regia di Marco Baliani. Nel 2026, dopo aver concluso le riprese del nuovo film di Paolo Genovese ci sarà l’Odissea, ancora in fase di scrittura con Emanuele Aldrovandi. «Sarà un monologo in cui Ulisse non viene descritto dagli altri, ma si racconta, partendo dal fatto che non vuole andare in guerra». Una corporeità che mancherà sul set… «Ci sono registi, invece, che chiedono un cambiamento fisico importante. Penso a Veloce come il vento ispirato alla vita del pilota di rally Carlo Capone. Matteo Rovere mi ha richiesto una trasformazione abbastanza radicale. Gabriele Muccino sicuramente pretende un coinvolgimento totale, corporeo ed emotivo. Difficile, ma divertentissimo e appassionante. Con lui non esiste mai una scena facile, nemmeno quella descritta in poche righe». A un certo punto ne L’ultimo bacio, che consolida il successo consacrato con Radiofreccia, Giovanna Mezzogiorno gli ferisce una mano. «Non era previsto. Giovanna doveva solo minacciarmi con un coltello. Quella scena era in piano sequenza. Con Giovanna l’avevamo provata e riprovata. Quando è partita l’azione ci siamo trovati in una sorta di impasse e lei per romperla mi ha toccato la mano per sbaglio con la lama. Era il primo ciak ed è stato quello giusto». Con Muccino Accorsi ha girato quattro film, altrettanti con Özpetek. «Ferzan ha un approccio diverso. Con lui vai sul set e non sai mai cosa succede. A volte ti cimenti con un lungo dialogo, in altre vuole solo sguardi e situazioni. Poi arriva una piccola scena che non ha ancora messo a fuoco e la scrive seduta stante. I registi che hanno fiducia nei propri mezzi espressivi sono quelli che si riservano anche tante sorprese sul set. Preparano, studiano, ma poi si confrontano anche con l’attore e quando ti trovi davanti alla macchina da presa è totalmente diverso da come lo avevi immaginato. Dall’azione allo stop sai che accadrà qualcosa di irripetibile per te e per tutta la troupe: è un momento sospeso, ogni ciak è unico. Il cinema è un mestiere piuttosto incredibile: una enorme macchina in cui lavorano tante persone a preparare scenografia, messa in scena, costumi, recitazione e poi tutto converge in una singola inquadratura». E se nel film finisce il ciak che per l’attore non è il migliore? «Mi affido molto ai registi, il monitor è terreno loro, vedono cose che noi non catturiamo, raramente sbagliano». Il primo ruolo da protagonista di Accorsi è stato Jack Frusciante è uscito dal gruppo di Enza Negroni del 1996, tratto dal libro di Fausto Brizzi, che ha cambiato la generazione X cui Accorsi appartiene. «In realtà ha cambiato anche il mondo del cinema, perché i ragazzi, da figli hanno assunto un ruolo di primo piano, la prima volta che una giovane generazione raccontava sé stessa». Tre anni dopo arriva Radiofreccia di Ligabue. «È un film che ha tenuto il tempo meravigliosamente, Ligabue ha fatto un grande lavoro sulla provincia e sulla musica. Era un tempo in cui un artista cresceva piano, prima si esibiva davanti a quattro persone, poi si formava un suo seguito. Io ascoltavo il rock più classico, Led Zeppelin, Pink Floyd, gli U2. i Nirvana, Vasco. Oggi manca l’interpretazione, il successo arriva subito e poi il vuoto. È dura». E ad Accorsi la notorietà pesa? «No. Se una persona fa il mio mestiere e ha la fortuna di essere riconosciuto bisogna solo essere grati».


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